Gli screenshot delle chat su whatsapp sono prova dell’addebito

di avv. Rebecca Gelli

Con la sentenza in commento, la Cassazione ha confermato un consolidato orientamento in tema di ripartizione dell’onere probatorio nella separazione giudiziale, ribadendo che il coniuge che richiede l’addebito deve dimostrare l’inosservanza degli obblighi coniugali e l’incidenza causale della condotta, nel rendere intollarabile la prosecuzione della convivenza. Viceversa, il coniuge che eccepisce l’inefficacia dei fatti posti a fondamento della domanda deve provare l’anteriorità della crisi matrimioniale all’accertata infedeltà.   

Per l’effetto, la Suprema Corte, vista l’impugnazione proposta dalla moglie contro la sentenza della Corte d’appello che aveva rigettato la sua domanda di mantenimento, ha dichiarato inammissibile il ricorso, in quanto volto ad ottenere una rivalutazione del materiale istruttorio posto a fondamento della decisione del giudice di merito, sulla base di un ragionamento incensurabile in sede di legittimità.

Nella fattispecie, la ricorrente lamentava una presunta violazione del suo diritto alla privacy, perché, a riprova delle diverse relazioni extraconiugali intrattenute dalla moglie, il marito aveva prodotto gli screenshot delle chat su whatsapp, estrapolate dal telefono cellulare della stessa, senza il suo consenso.

La Corte d’Appello, da una parte, aveva ritenuto utilizzabili tali conversazioni, in ragione dell’art. 24, comma 1, lettera f, del d.lgs. n. 196/2003, a mente del quale il consenso al trattamento dei dati personali non è richiesto quando è necessario per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria; dall’altra, le aveva pressoché reputate irrilevanti, in quanto la moglie sosteneva che l’infedeltà fosse conseguenza della crisi di coppia, ma non aveva fornito alcuna prova a smentita dell’efficienza causale del tradimento e non contestava il fatto in sé, che poteva pertanto considerarsi pacifico.

La Cassazione ha ritenuto il ragionamento immune da vizi, in quanto la norma applicata dal giudice a quo, pur formalmente abrogata dall’art. 27, comma 1, lettera a, del d.lgs. n. 101/2018, esprime un principio immanente all’ordinamento: pertanto, la relativa abrogazione non preclude la possibilità di trattare dati sensibili in chiave difensiva, ai sensi del combinato disposto dell’art. 51 c.p. e dell’art. 24 Cost., da cui si ricava l’esistenza di una scriminante per l’esercizio del diritto di difesa (Cass. pen. n. 24600/2022, in tema di diffamazione).

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