La diffamazione via internet integra l’aggravante dell’aver commesso il fatto col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità

La Corte d’appello di Messina ha confermato la sentenza del giudice di prime cure che aveva ritenuto l’imputato colpevole del reato di cui all’art. 595, comma 3, c.p. .

In particolare, veniva contestato all’imputato di aver compiuto l’azione criminosa ai danni della persona offesa in quanto “comunicando con più persone, in particolare inviando sulla e-mail del profilo del social network Facebook, inviava una nota che offendeva la reputazione della vittima con l’aggravante di aver commesso il fatto mediante l’attribuzione di un fatto determinato e con il mezzo di un sito internet pubblico”.

Il difensore dell’imputato ha proposto ricorso per cassazione contro questa decisione, censurando, tra l’altro, l’omessa verifica da parte della Corte territoriale del numero effettivo dei destinatari che aveva preso visione della e-mail.

La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza in commento (Cass. pen. n. 26054/2019), ha dichiarato inammissibile il ricorso, confermando il proprio costante orientamento, secondo il quale

“configura il delitto di diffamazione, non già quello di ingiuria, il caso di invio di una e-mail a contenuto diffamatorio realizzato tramite internet”.

Sin dalla fine degli anni novanta la giurisprudenza di legittimità si è interessata al problema delle diffamazioni via web, distinguendo tra i mezzi di comunicazione che possono raggiungere un numero indeterminato di destinatari (come i siti internet, i blog, i forum e i social media) e quelli per loro natura diretti a soggetti specifici (come le e-mail o i messaggi in chat private).

In particolare, con la sentenza n. 4741/2000, la Suprema Corte ha distinto nettamente le due ipotesi, affermando che “nel caso di diffamazione commessa, ad esempio, a mezzo della posta, telegramma o e-mail è necessario che l’agente compili e spedisca una serie di messaggi a più destinatari; nel caso in cui l’agente crei od utilizzi uno spazio web, la comunicazione deve intendersi effettuata potenzialmente erga omnes”.

Partendo da tale premessa, la Cassazione è giunta alla conclusione che

“l’utilizzo di internet integra una delle ipotesi aggravate di cui all’art. 595, comma terzo, c.p.. In tale caso, infatti, con tutta evidenza, la particolare diffusività del mezzo usato per propagare il messaggio denigratorio rende l’agente meritevole di un più severo trattamento penale”

(in senso conforme, Cass. Pen. n. 50/2017).

Alla luce dei principi summenzionati si può affermare che la giurisprudenza di legittimità è consolidata nel ritenere che in caso di scritti, immagini o file vocali caricati su siti web o diffusi su social media, è sufficiente l’inserimento del contenuto denigratorio in rete per presumere che la comunicazione abbia raggiunto un numero indeterminato di soggetti.

 

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