Natura e limiti dei diritti del convivente sull’abitazione del partner

Con la sentenza n. 10377/2017 la Cassazione ha affermato il principio per cui “il rapporto di convivenza non attribuisce al convivente un titolo idoneo a possedere o detenere l'immobile adibito a casa familiare, né il diritto di abitazione ex art. 540 c.c. comma 2,  una volta che la stessa sia cessata”. Con la morte del convivente proprietario, si estingue anche il diritto avente ad oggetto la detenzione qualificata sull'immobile e nessuna pretesa  può essere avanzata dal convivente superstite  nei confronti degli eredi legittimi.

In proposito, la Suprema Corte precisa che “la detenzione qualificata del convivente non proprietario né possessore sul bene,  è esercitabile e opponibile ai terzi [in quanto] permanga  il titolo da cui deriva e cioè in  quanto perduri la convivenza more uxorio”, sicché essa viene meno, al momento della cessazione del rapporto fra i conviventi per “libera scelta delle parti, ovvero in conseguenza del decesso del convivente proprietario-possessore”.

Nel  caso pervenuto all’esame della Cassazione era accaduto che  l’ex convivente, convenuta  in  giudizio per la reintegrazione nel possesso, era stata condannata al rilascio dell'immobile  divenuto di proprietà degli eredi del suo partner,  della figlia e del coniuge separato.
Anche i Giudici d’appello avevano accolto le domande delle eredi, ritenendo che il rapporto di convivenza, seppure durato 47 anni, non attribuisse alla convivente un titolo valido per possedere o detenere l'immobile, non potendosi estendere al convivente more uxorio il diritto di abitazione previsto dall’art. 540 c.c. comma 2 a favore del coniuge.
La convivente ricorreva per Cassazione, censurando la decisione per violazione di legge in relazione alla   crescente tutela giuridica della famiglia di fatto, affermatasi in virtù della “preminenza assunta nell’ordinamento  dalle  formazioni sociali  di cui all’articolo 2 Cost.”.
I Giudici di Piazza Cavour però ritenevano l’inapplicabilità ratione temporis dell’articolo 1, comma 42 della  Legge n.  76/16,  secondo la quale  “il convivente superstite”  gode  di  “un diritto di abitazione  temporaneo (non oltre i 5 anni) modulato diversamente in relazione alla convivenza e alla presenza di figli  minori o disabili”.
Premesso che alle controversie  cui, invece, sarà applicabile tale ultima normativa  dovranno essere  decise conformemente ad essa, in quelle cui questa non sia applicabile, come quella decisa dall’anzidetta sentenza, il convivente superstite potrà giovarsi, secondo la Corte del “canone di buona fede e di correttezza… dettato a protezione  dei soggetti più esposti  e delle situazioni di affidamento” , che impone al soggetto legittimamente intenzionato a rientrare, in base al suo diritto, nella esclusiva  disponibilità del bene, di concedere all’ex convivente un termine congruo per la ricerca di una nuova soluzione abitativa.
In sostanza, la Corte da un lato ha rigettato il ricorso, confermando la decisione che aveva costretto la ricorrente al rilascio dell’immobile e dall’altro, ai fini di mitigare le conseguenze di questa statuizione, ha suggerito un’applicazione del canone di buona fede ad una questione di natura prettamente  extracontrattuale ed in termini che si prestano ad un’ampia soggettività interpretativa.

 

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