Limiti legali alla P.M.A., fecondazione omologa post mortem e diritti del nato secondo la Cassazione

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 13000/2019, affronta il problema della formazione dell’atto di nascita di una bambina nata a seguito dell’applicazione delle tecniche di P.M.A., secondo una procedura di riproduzione assistita non conforme alla legge n. 40/2004.
La madre aveva impugnato in primo e secondo grado il rifiuto dell’ufficiale di stato civile di riportare nell’atto di nascita della figlia il cognome del padre, deceduto prima della fecondazione.
La ricorrente deduceva di aver condiviso col marito la scelta di ricorrere alle tecniche di P.M.A. e che entrambi i coniugi avevano prestato il loro espresso consenso alla procedura; che nel corso della terapia il marito aveva appreso di essere gravemente malato e, dovendo assumere farmaci che avrebbero compromesso la sua capacità di generare, aveva reiterato il proprio consenso con dichiarazione sottoscritta; consapevole inoltre della sua fine imminente, aveva autorizzato la moglie all’utilizzo post mortem del proprio seme crioconservato per ottenere una gravidanza con l’ausilio delle tecniche di fecondazione assistita omologa.
Per realizzare il comune desiderio di procreazione la ricorrente, dopo la morte del marito, si era sottoposta al trattamento di fecondazione assistita (FIV) in Spagna, il cui ordinamento consente la fecondazione omologa post mortem purché entro l’anno dal decesso, e purché l’utilizzo post mortem del seme crioconservato sia stato espressamente autorizzato.
Dopo la nascita della figlia, avvenuta in Italia, la madre si era rivolta all’ufficiale dello stato civile per la redazione dell’atto di nascita, chiedendo espressamente che fosse indicata la paternità, previa allegazione di tutta la documentazione attestante l’avvenuta P.M.A..
L’ufficiale di stato civile aveva invece rifiutato di trascrivere nell’atto di nascita la paternità del defunto e quindi di attribuire alla piccola il cognome paterno, ritenendo la richiesta materna contraria all’ordinamento giuridico vigente (la l. n. 40/2004 non consente la fecondazione post mortem).
La Corte ha accolto il ricorso, e cassato con rinvio la decisione di rigetto di secondo grado.
Il giudice di legittimità, ha considerato che nella società attuale la genitorialità si declina ormai in una molteplicità di contesti prima inediti.
Ed ha ritenuto, quindi, necessario porsi in un’altra prospettiva, nella quale il rapporto familiare non si pone più in termini convenzionali e in cui nuove ipotesi di relazioni intersoggettive incalzano la scena della famiglia, che non può più essere solo quella che il codice civile ha previsto nel 1942.
E poiché il fenomeno dell’emersione di queste diverse relazioni intersoggettive affettive è in progressiva evoluzione, è necessario approntare una tutela sistematica (e non più occasionale) di fenomeni prima sconosciuti o ritenuti minoritari, imponendo soluzioni capaci di emanciparsi dai modelli tradizionali (basati sulla filiazione biologica), inadeguati a tutelare l’interesse del nato.
Vari sono quindi i profili di rito e di merito affrontati con analitiche argomentazioni dalla Corte.
Essa ha ritienuto anzitutto senz’altro ricorribile per cassazione la decisione della Corte d’appello di Ancona, essendo indubbio il carattere decisorio e definitivo del decreto di rigetto, nonché la sua incidenza su diritti soggettivi attinenti allo status delle persone ed alla loro identità personale.
Quanto all’oggetto della cognizione giurisdizionale, per la Corte trovano applicazione gli artt. 95 e 96 del D.P.R. n. 396 del 2000 (Reg. di revisione e semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, che ha integralmente sostituito il precedente R.D. 9 luglio 1939 n. 1238).
L’art. 95 dispone che “chi intende promuovere la rettificazione di un atto dello stato civile o la ricostituzione di un atto distrutto o smarrito o la formazione di un atto omesso o la cancellazione di un atto indebitamente registrato, o intende opporsi a un rifiuto dell’ufficiale dello stato civile di ricevere in tutto o in parte una dichiarazione o di eseguire una trascrizione, una annotazione o altro adempimento, deve proporre ricorso al tribunale nel cui circondario si trova l’ufficio dello stato civile presso il quale è registrato l’atto di cui si tratta o presso il quale si chiede che sia eseguito l’adempimento. Il procuratore della Repubblica può in ogni tempo promuovere il procedimento di cui al comma 1”.
Il successivo art. 96 sancisce che “il tribunale può, senza particolari formalità, assumere informazioni, acquisire documenti e disporre l’audizione dell’ufficiale dello stato civile. Il tribunale, prima di provvedere, deve sentire il procuratore della Repubblica e gli interessati e richiedere, se del caso, il parere del giudice tutelare. Sulla domanda il tribunale provvede in camera di consiglio con decreto motivato. Si applicano, in quanto compatibili, gli artt. 737 c.p.c. e segg. nonché, per quanto riguarda i soggetti cui non può essere opposto il decreto di rettificazione, l’art. 455 c.c.”.
Tale procedimento, per la Corte di legittimità, è volto ad eliminare la difformità tra la situazione di fatto quale è o dovrebbe essere nella realtà secondo la previsione di legge e quale invece risulta dall’atto dello stato civile, a seguito di un vizio comunque o da chiunque originato nel procedimento di formazione dell’atto stesso.
La funzione degli atti dello stato civile è, infatti, quella di attestare la veridicità dei fatti menzionati nei relativi registri. Di conseguenza la cognizione del giudice ha ad oggetto l’accertamento della corrispondenza alla verità della dichiarazione del genitore ai fini della completezza dell’atto di nascita del figlio rispetto alla realtà generativa e di discendenza genetica e biologica di quest’ultimo.
Le dichiarazioni rese all’ufficiale dello stato civile, se dirette esclusivamente a dare pubblica notizia di eventi, quali la nascita o la morte, rilevanti per l’ordinamento dello stato civile per il solo fatto di essersi verificati, impongono all’ufficiale di riceverle e formarne nei suoi registri processo verbale per atto pubblico, senza che gli spetti di stabilire la compatibilità, o meno, di detti eventi con l’ordinamento italiano e se, per questo, abbiano rilevanza e siano produttivi di diritti e doveri.
In sostanza il registro documenta un evento, cioè un fatto storico: la nascita o la morte rilevano per il solo fatto di essersi verificati.  In queste ipotesi l’ufficiale ha l’obbligo di ricevere quanto riferito dal dichiarante e di formare il processo verbale, e non gli compete invece stabilire se gli eventi possano o meno essere compatibili con l’ordinamento giuridico italiano, se abbiano rilevanza e se siano o meno produttivi di diritti o doveri.

Su tali questioni spetta solo al giudice pronunciarsi ove su di esse insorga una controversia.

Sotto questo profilo, quindi, non viene in rilievo né sul piano amministrativo, né su quello giudiziario la liceità o meno secondo la legge italiana (l. n. 24/2004) della tecnica di P.M.A. omologa post mortem, ma solo la corrispondenza tra dichiarazione e fatto storico.
Una volta verificatasi la nascita, è quindi necessario verificare se debbano applicarsi gli artt. 231 e 233 c.c. (in relazione alla prova della paternità) o debba applicarsi la disciplina speciale e derogatoria di cui alla legge n. 40/2004, che dà rilievo determinante al consenso prestato dai genitori al processo generativo mediante P.M.A.
Per la Corte questo accertamento deve considerare plurimi fattori, tra cui:
a) il rilievo attribuito dalla società odierna a bisogni che un tempo ignoti, non prevedibili ed ancora non (o parzialmente) regolamentati dal legislatore, nazionale o sovranazionale: la genitorialità oggi può scindersi dal nesso col matrimonio e dalla famiglia, ma non può, tuttavia, prescindere dalla “responsabilità” genitoriale, che passa da esercizio di un diritto alla procreazione allo svolgimento di una “funzione” genitoriale. In tale scenario è necessario comprendere se i divieti di genitorialità, pure evincibili dal nostro ordinamento, possano fungere da “controlimite” alla tutela dei diritti di chi è nato.
b) il costante dialogo tra le Corti supreme degli Stati Europei, con la Corte EDU e la Corte di Giustizia dell’Unione Europea: la illiceità/illegittimità, in Italia, della tecnica di P.M.A. non può certamente riflettersi, in negativo, sul nato e sull’intero complesso dei diritti a lui riconoscibili. In altre parole, la circostanza che si sia fatto ricorso all’estero a una P.M.A. non espressamente disciplinata (o addirittura non consentita) nel nostro ordinamento non esclude, ma anzi impone, nel preminente interesse dal nato, l’applicazione di tutte le disposizioni che riguardano lo stato del figlio venuto al mondo all’esito di tale percorso (cfr. Corte EDU sentenze “gemelle” Mennesson c. Francia 26 giugno 2014, ric. n. 65192/11 e Labassee c. Francia 26 giugno 2014, ric. n. 65941/11). Nello stesso senso si era espressa la Corte Costituzionale fin dalla sentenza n. 347 del 1998, che (ancor prima del sopravvenire della L. n. 40 del 2004) aveva sottolineato la necessità di distinguere tra la disciplina di accesso alle tecniche di P.M.A. e la doverosa, e preminente, tutela giuridica del nato, significativamente collegata alla dignità dello stesso.

La Corte ritiene quindi preminenti le garanzie per il nuovo nato, non solo in relazione ai diritti e ai doveri previsti dagli artt. 30 e 31 Cost., ma ancor prima – in base all’art. 2 Cost. – in relazione ai diritti nei confronti di chi si sia liberamente impegnato ad accoglierlo, assumendone le relative responsabilità.

Peraltro la stessa legge n. 40/2004, all’art. 9, ha previsto che, in caso di ricorso a tecniche (vietate) di procreazione medicalmente assistita, il coniuge o convivente consenziente non può esercitare l’azione di disconoscimento della paternità, né impugnare il riconoscimento per difetto di veridicità.
Figlio oggi è non solo chi nasce da un atto naturale, ma anche chi venga al mondo a seguito di fecondazione assistita (omologa o eterologa), o colui che sia tale per effetto di adozione.
Occorre quindi verificare se la disciplina della filiazione nella procreazione medicalmente assistita configuri o meno un sistema alternativo a quello codicistico. E la risposta è positiva.
La legge non regola espressamente la fattispecie in esame, ma deve tuttavia trovare applicazione

il principio generale desumibile dall’art. 8 della citata legge, per il quale il consenso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita è sufficiente per attribuire lo status di figlio, indipendentemente dalla liceità della procedura seguita, essendo preminente la tutela del nascituro sotto il profilo della certezza dello status filiationis.

Nel caso deciso, benché manchi il requisito dell’esistenza in vita di tutti i soggetti coinvolti al momento della fecondazione dell’ovulo,

deve ritenersi che, una volta avvenuta la nascita del figlio, quest’ultimo avrà come padre colui che ha espresso il consenso ex art. 6 della legge, senza mai revocarlo, dovendosi individuare in questo preciso momento la consapevole scelta della paternità.

Quindi, anche laddove la legge n. 40/2004 non permetta di accedere alle pratiche di fecondazione medicalmente assistita, quando la procreazione comunque avvenga, lo status filiationis va determinato verificando solamente se il coniuge o il convivente abbia effettivamente prestato il proprio consenso, anche per atti concludenti, e se tale consenso – integrato dalla possibilità di utilizzo del proprio seme post mortem – sia effettivamente persistito fino al momento in cui poteva essere legalmente revocato.  
La Corte accoglie quindi il ricorso proposto dalla madre, in proprio e quale esercente la potestà genitoriale sulla figlia minorenne, rinviando alla Corte d’appello di Ancona, in diversa composizione, per il riesame della controversia alla stregua dei seguenti principi di diritto:
a) “Le dichiarazioni rese all’ufficiale dello stato civile, se dirette, esclusivamente, a dare pubblica notizia di eventi, quali la nascita o la morte, rilevanti per l’ordinamento dello stato civile per il solo fatto di essersi verificati, impongono al menzionato ufficiale di riceverle e formarne nei suoi registri processo verbale per atto pubblico, senza che gli spetti di stabilire la compatibilità, o meno, di detti eventi con l’ordinamento italiano e se, per questo, abbiano rilevanza e siano produttivi di diritti e doveri. Diversamente, qualora, tali dichiarazioni siano, di per se stesse, produttive di effetti giuridici riguardo allo status della persona cui si riferiscono, l’ufficiale dovrà rifiutare di riceverle ove le ritenga in contrasto con l’ordinamento e con l’ordine pubblico”;
b) “Il procedimento di rettificazione degli atti dello stato civile, disciplinato dal D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, art. 96, è ammissibile ogni qualvolta sia diretto ad eliminare una difformità tra la situazione di fatto, quale è o dovrebbe essere nella realtà secondo le previsioni di legge, e come risulta dall’atto dello stato civile per un vizio, comunque o da chiunque originato, nel procedimento di formazione di esso. In tale procedimento, l’autorità giudiziaria dispone di una cognizione piena sull’accertamento della corrispondenza di quanto richiesto dal genitore in relazione alla completezza dell’atto di nascita del figlio con la realtà generativa e di discendenza genetica e biologica di quest’ultimo, potendo, così, a tale limitato fine, avvalersi di tutte le risorse istruttorie fornitele dalla parte”;
c) “La L. 19 febbraio 2004, n. 40, art. 8, recante lo status giuridico del nato a seguito dell’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita, è riferibile anche all’ipotesi di fecondazione omologa post mortem avvenuta mediante utilizzo del seme crioconservato di colui che, dopo avere prestato, congiuntamente alla moglie o alla convivente, il consenso all’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, ai sensi dell’art. 6 della medesima legge, e senza che ne risulti la sua successiva revoca, sia poi deceduto prima della formazione dell’embrione avendo altresì autorizzato, per dopo la propria morte, la moglie o la convivente all’utilizzo suddetto. Ciò pure quando la nascita avvenga oltre i trecento giorni dalla morte del padre”.

 

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