Reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare: colpevole chi si spoglia fraudolentemente dei propri beni al fine di non versare l’assegno di mantenimento

di avv. Anna Silvia Zanini

L'art. 570-bis c.p. punisce il coniuge che si sottrae all'obbligo di corresponsione di ogni tipologia di assegno dovuto in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio ovvero vìola gli obblighi di natura economica in materia di separazione dei coniugi e di affidamento condiviso dei figli.

La fattispecie è stata introdotta dal d.lgs. n. 21/2018 (art. 2, comma 1, lett. c) e assorbe due previsioni: l'art. 12-sexies l.n. 898/1970 (“Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio”), già stabilente l'applicazione delle pene di cui all'art. 570 al coniuge che si sottrae all'obbligo di corresponsione dell'assegno dovuto ex artt. 5 e 6 (l.n. 898/1970), e l'art. 3 l n. 54/2006 (“Disposizioni in materia di separazione dei coniugi e affidamento condiviso dei figli”) che pure prevede l'applicazione delle pene di cui all'art. 570 attraverso il rinvio a quanto previsto dall'art. 12-sexies relativamente alle sanzioni da applicare nei casi di violazione di obblighi di natura economica.

Con la recente sentenza (Cass. pen., sez VI, ud. 28 marzo 2023) n. 20905 del 28 marzo 2023, la Suprema Corte ha chiarito come il delitto di cui all’art. 570-bis possa configurarsi anche allorquando il soggetto, inadempiente al versamento dell’assegno, si sia fraudolentemente spogliato dei propri beni allo scopo di sottrarsi al versamento dell’assegno dovuto.

La Corte di appello di Ancona, in riforma della sentenza assolutoria di primo grado, ha ritenuto responsabile l’imputato del reato di cui all'art. 570-bis c.p., per omessa corresponsione in favore della moglie divorziata dell'assegno mensile di mantenimento stabilito dal giudice civile, condannandolo alla pena di due mesi di reclusione, oltre alle statuizioni disposte in favore della costituita parte civile.

In particolare, la Corte d’Appello, a fondamento della propria decisione, ha evidenziato come l’uomo si sia cancellato dall’albo dei commercialisti e abbia, in maniera fraudolenta, donato le quote dei propri beni immobili alla sorella con il chiaro scopo di potersi liberare dall’obbligo verso l’ex moglie.

L’imputato presentava ricorso per Cassazione, lamentando – tra l’altro – la violazione di legge in relazione all'art. 570-bis c.p., affermando come l'inadempimento non fosse doloso bensì determinato dalla impossibilità di fare fronte all'obbligazione alimentare, nonché violazione dell'art. 133 c.p. con riguardo alla scelta di applicare la pena della reclusione in luogo della multa.

La Suprema Corte ha ritenuto inammissibile il ricorso, rilevando in particolare come la doglianza concernente l’asserita violazione di legge di cui all’art. 570-bis c.p., verta invero direttamente sul merito della regiudicanda, oltre a rivelarsi generico in quanto costituisce la pedissequa riproposizione di quello già articolato con l'atto di gravame, e concernente la pretesa impossibilità economica ad adempiere all'obbligazione stabilita dal giudice civile contestualmente al provvedimento di scioglimento del matrimonio.

La Suprema Corte rileva come non sussista alcun profilo di contraddittorietà o illogicità manifesta della motivazione della pronunzia impugnata: la Corte di Appello ha osservato correttamente che l'imputato non ha offerto alcuna dimostrazione di versare in una situazione di assoluta ed incolpevole indigenza, risultando dagli atti come, pur svolgendo la professione di commercialista, avesse deliberatamente cessato l'attività, cancellandosi dall'albo professionale ed intestando alla sorella le proprie quote immobiliari, “così da figurare privo di redditi e di cespiti patrimoniali e conseguentemente sottrarsi all'obbligazione alimentare”.

Per quanto riguarda poi la doglianza concernente la scelta della pena applicata, la Suprema Corte sottolinea che si tratta di una mera critica al potere del giudice di determinare la natura e la misura della pena, in questo caso detentiva, irrogata dalla Corte di merito alla stregua dei criteri di commisurazione di cui all'art. 133 c.p., rilevando tra l’altro come la Corte d’Appello abbia argomentato e supportato la propria decisione in forza delle modalità della condotta dell’imputato, che si è reso responsabile della citata fraudolenta spoliazione dei propri beni al fine specifico di sottrarsi all’obbligo del versamento.

E’ stata pertanto confermata la condanna alla reclusione di due mesi.

Allegati

Ok
Questo website usa solamente cookies tecnici per il suo funzionamento. Maggiori dettagli