Manifestazione e documentazione del consenso informato. In particolare: i diritti delle persone con disabilità

L’autodeterminazione informativa e terapeutica di cui alla l. n. 219/17 è una declinazione del diritto alla vita, alla salute e all’intangibilità psico-fisica. Senza consenso dell’interessato nessun trattamento può essere iniziato o proseguito.
Le Linee di indirizzo per la gestione e raccolta del consenso informato (ARSS Veneto), già prima della legge in commento, si ponevano l’obiettivo di favorire un processo di comunicazione e di informazione che fosse il risultato di un’alleanza terapeutica tra medico e paziente.
Nell’ambito della l. n. 219/2017, la libera scelta terapeutica del paziente è il risultato di una co-costruzione, caratterizzata da necessità comunicative, informative e relazionali, adeguate e finalizzate all’esercizio effettivo, consapevole e responsabile, dei propri diritti.  
L’art. 1 comma 4 prevede anzitutto che la volontà sia acquisita “nei modi e con gli strumenti più consoni alle condizioni del paziente”, intese nella loro più ampia accezione e per questo non con esclusivo riferimento delle sue “condizioni cliniche”, ma anche a quelle culturali, psicologiche, linguistiche.
L’art. 35 del Codice di deontologia medica precisa che “l’acquisizione del consenso o del dissenso è un atto di specifica ed esclusiva competenza del medico, non delegabile”.
Si è detto, infatti, che non vi può essere consapevolezza senza informazione dettagliata ed adeguata, e questa può essere fornita solo dal medico: suo quindi il dovere informativo e suo il dovere di acquisizione diretta dal paziente delle decisioni terapeutiche, sua infine l’eventuale responsabilità in caso di inadempimento.
Quanto alle modalità di documentazione, le scelte terapeutiche sono espresse in forma scritta ovvero, qualora le condizioni psico-fisiche del paziente non lo consentano, anche attraverso video registrazioni o, per le persone con disabilità, attraverso altri dispositivi che consentano loro di comunicare.
Ciò significa che le strutture sanitarie dovranno dotarsi della strumentazione necessaria affinché ad ogni paziente sia garantito il libero esercizio di questi fondamentali diritti della persona.
Il tutto deve poi essere inserito nella cartella clinica o nel fascicolo sanitario elettronico.
La distinzione tra acquisizione e documentazione è quanto mai opportuna, per evitare il diffondersi di prassi distorsive nella formulazione e documentazione delle determinazioni terapeutiche del paziente.
La giurisprudenza ha da sempre stigmatizzato le condotte consistenti nel far “sottoscrivere al ricoverato il “modulo” per il consenso informato”, senza avergli fornito “adeguate informazioni in merito ai rischi ed alle eventuali complicazioni correlabili all’intervento chirurgico, in relazione anche alla natura dell’operazione e al livello culturale ed emotivo del paziente …” (Trib. Venezia 4.10.2004).
L’orientamento da tempo consolidato, per riconoscere la validità del consenso, esige che esso sia “personale”, cioè proveniente dal paziente, “esplicito”, “attuale”, ossia espresso nel momento in cui l’attività sanitaria deve essere espletata, “specifico”, e quindi riguardante ogni singolo trattamento al quale questi deve essere sottoposto, “consapevole” in quanto basato su informazioni dettagliate, fornite dal medico, comunque tali da consentire “la piena conoscenza della natura dell’intervento medico e/o chirurgico, della sua portata ed estensione, dei suoi rischi, dei risultati conseguibili e delle possibili conseguenze negative” (Corte Cass. 7027/2001).
In senso anticipatorio rispetto alla legge in commento la Corte di Cassazione aveva già precisato che “il consenso informato è veramente adempiuto quando contiene le informazioni utili affinché il paziente abbia piena conoscenza sia della natura, della portata e dell'estensione del trattamento, sia dei suoi rischi e delle possibili conseguenze negative, sia, infine, dei risultati conseguibili” (Cass. n. 2177/2016).
Se invece “il modulo di consenso informato sottoscritto dal paziente è del tutto generico, la sottoscrizione non basta per ritenere che il medico abbia effettivamente fornito tutte le informazioni necessarie per quel determinato trattamento sanitario" (ex multis Cass. n. 15698/2010, Cass. n. 26827/2017, Cass. n. 24791/2011).
Né è stata ritenuta sufficiente “la sola informazione cartacea, contenente indicazioni generiche sull’intervento, prive di delucidazioni dettagliate ed individualizzate” (Cass. n. 24853/2010).
Va al contrario favorito l’attivo coinvolgimento del paziente nella scelta terapeutica, affinché questa sia realmente frutto di una “decisione consapevole”. Pertanto, rilevano anche le modalità dell'informazione, che devono “estrinsecarsi in spiegazioni tecniche adeguate al livello culturale del paziente e al grado di conoscenze” in un “tempo sufficiente durante il quale riflettere sull’informazione ricevuta” (Cass. n. 19220/2013).
Ad esempio, non è stato ritenuto validamente espresso il consenso “prestato verbalmente dal paziente sotto effetto di sedativi e con scarsa conoscenza della lingua italiana” (Cass. n. 19212/2015).
La sottoscrizione di un modulo del tutto “generico” non è suscettibile di attribuire alle dichiarazioni in esso contenute valore di confessione stragiudiziale in merito alle informazioni ricevute, valore che è configurabile solo quando la manifestazione di volontà ha ad oggetto fatti obiettivi e circostanziati (e cioè le specifiche informazioni correttamente trasmesse al dichiarante).
Anche il rifiuto alle cure e/o la revoca del consenso precedentemente prestato devono essere acquisiti e documentati con le stesse modalità previste per il consenso (art. 1, quinto comma), compreso l’inserimento nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico.
La legge n. 219/2017 quindi ribadisce il criterio generale della libertà della forma di espressione del consenso/dissenso (acquisito, come detto, nei modi e con gli strumenti più consoni alla volontà e condizioni del paziente), e distingue il diverso e successivo momento della documentazione (con finalità meramente probatorie) della volontà del paziente.
Se ne desume che l’avvenuta informazione e decisione sanitaria potrà essere anche altrimenti dimostrata, così come la mancata possibilità di procedere alla sua documentazione secondo le modalità indicate come preferenziali dalle norme vigenti.
Il comma 11° dell’art. 1 rinvia invece ai casi normativamente previsti in cui una specifica forma (in genere la forma scritta) è richiesta “ad substantiam” e non solo “ad probationem” (es. l. n. 458/1967 “Donazione di tessuti ed organi tra persone viventi”; l. n. 194/1978 “Interruzione volontaria della gravidanza”; l. n. 107/1990 - oggi L. 219/2005 - “Trasfusioni di sangue”; l. n. 135/1990 “Accertamento diagnostico HIV”; l. n. 301/1993 “Prelievo ed innesto di cornea”; l. n. 14/2002 “Terapia elettroconvulsivante”; l. n. 40/2004 “Procreazione medicalmente assistita”; tutte le ipotesi di sperimentazione clinica o farmacologica - es. D.lg 211/2003).
Da sottolineare infine come la l. n. 219/2017 in attuazione della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (ratificata con l. n. 18/2009), ampli le modalità di manifestazione dell’autodeterminazione terapeutica, comprendendo ogni mezzo che consenta alle persone con disabilità di esprimersi, e prima ancora di ricevere e comprendere ogni necessaria e utile informazione.
In base alla Convenzione, la disabilità è una delle tante diversità in cui si articola il nostro essere persone umane ed è principalmente il risultato della relazione tra la persona e il suo ambiente.
Le barriere che rendono alcune persone meno abili delle altre dipendono sostanzialmente dal modo in cui la comunità organizza l’esercizio dei diritti e l’accesso ed il godimento di beni e servizi.
Per questo motivo oggi vi è l’obbligo giuridico di includere nelle politiche “ordinarie” i temi della disabilità come parte integrante delle strategie di regolamentazione e sviluppo della compagine sociale.
Sotto questo profilo la l. n. 219/2017 prescrive che sia concretamente ed effettivamente garantita la valorizzazione delle capacità di espressione, e ancor prima di comprensione, delle persone con disabilità.
E’ già il medico, quindi, a doversi rendere “comprensibile”, adeguando la propria modalità comunicativa e dedicando a questo compito un “tempo” adeguato alle difficoltà ed ai limiti alle capacità cognitive del singolo disabile.
Si tratta di un principio affermato dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea che protegge espressamente la “capacità del disabile di compiere scelte autonomamente” (art. 26).
Anche il Comitato Nazionale di Bioetica aveva più volte sottolineato la natura graduale e mutevole della capacità/incapacità di intendere e volere, in quanto tra l’assoluta incapacità, propria della demenza, e la “normalità”, vi sono una serie di gradi intermedi, tra cui deficit cognitivi e alterazioni che possono determinarne diminuzioni, ma non l’assenza della capacità.
L’art. 1 della legge, quindi, nell’affermare e declinare un diritto personalissimo come l’autodeterminazione terapeutica, prevede, su un piano di totale integrazione umana, modalità di esercizio idonee ad abbattere le barriere e le diversità.
L’attenzione alla disabilità consentirà, in realtà, di tutelare anche altri tipi di fragilità più sfumata (es. l’anziano che progressivamente vive la diminuzione delle proprie autonomie e capacità cognitive) e che non hanno la forza dell’evidenza e la chiarezza del limite che molte volte caratterizza le condizioni dei disabili.
La  tutela della disabilità diventerà in tal modo l’”ombrello” sotto il quale tutte le persone “fragili” potranno trovare riparo.
Per questo nell’incipit della richiamata Convenzione, gli Stati sottoscrittori (quindi anche lo Stato Italiano) hanno ringraziato le persone con disabilità per “i preziosi contributi, esistenti e potenziali” apportati “e dalla diversità delle loro comunità in favore del benessere generale ... perché la promozione del pieno godimento dei diritti umani, delle libertà fondamentali e della piena partecipazione nella società da parte delle persone con disabilità porterà ad un accresciuto senso di appartenenza e a progressi significativi nello sviluppo umano, sociale ed economico della società e nello sradicamento di tutte le forme di discriminazione e povertà”.
In ogni caso il processo di informazione da parte del medico, finalizzato a consentire al paziente la libera ed effettiva manifestazione del consenso o del rifiuto o della revoca delle cure, deve essere guidato dal principio etico clinico, oggi normativo, di individuazione e attuazione delle modalità e misure più adatte ed adeguate al singolo paziente e anche al suo contesto di eventuale disabilità.

 

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