È il reddito netto che occorre valutare per l’assegno di divorzio

IL CASO. Tizio ha impugnato la sentenza n. 1117/2015 della Corte d’appello di Catania che, in parziale accoglimento del gravame proposto dall’ex moglie Caia, aveva riformato la sentenza di primo grado in punto di assegno di mantenimento, confermando l’assegno a favore dei figli e stabilendo a favore dell’ex coniuge un assegno divorzile di E. 200,00 mensili. La decisione della Corte territoriale era motivata dalle condizioni economiche delle parti e, in particolare, dal fatto che Caia, dopo la separazione, a causa di una riduzione dell’orario lavorativo e dello stipendio, risultava priva dei mezzi adeguati per mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.
Tizio ha quindi proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione impugnata sulla base di tre motivi, adducendo l’erroneità della valutazione della capacità economica delle parti. I Giudici di secondo grado, infatti, avevano comparato i redditi dei coniugi considerando da un lato il reddito lordo del marito e, dall’altro lato, quello netto percepito dalla moglie nel 2012 (in una misura peraltro inferiore a quella dichiarata). In aggiunta, la Corte territoriale aveva svalutato la rata mensile del mutuo che Tizio aveva acceso per l’acquisto di un’abitazione dopo la separazione ed aveva omesso di considerare l’incidenza sia dell’assegno di mantenimento mensile a favore dei figli, pari ad E. 1.081,74, sia della trattenuta mensile subita per l’utilizzo dell’autovettura aziendale.
Il ricorrente, inoltre, si doleva della violazione del principio dell’onere della prova ex art. 2697 c.c., in quanto la Corte d’appello gli aveva addossato l’onere di dimostrare che la riduzione stipendiale della moglie fosse stata coperta dalla C.G.I., invertendo così la regola generale secondo la quale sarebbe spettato a Caia provare di aver subito una riduzione stipendiale tale da renderla priva di mezzi adeguati per mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.

LA DECISIONE. La prima sezione della Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 651/2019, ha accolto il ricorso de quo ed ha ritenuto fondati tutti e tre i capi di impugnazione, richiamando la recente giurisprudenza in materia di assegno divorzile.
Il punto di partenza della motivazione è costituito, ancora una volta, dalla sentenza delle SS.UU. n. 18287/2018, che ha risolto il contrasto giurisprudenziale in tema di assegno divorzile suscitato dalla innovativa sentenza n. 11504/2017 della prima sezione. Come è noto, questa decisione ha affermato che una corretta interpretazione dell’art. 5 comma 6 della L. 898/1970 deve fondarsi sul presupposto per cui l’assegno divorzile ha natura composita, in quanto l’adeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente o l’incapacità di procurarseli per ragioni oggettive deve essere desunta dalla valutazione, del tutto equiordinata, degli indicatori contenuti nella prima parte della disposizione, che costituiscono, allo stesso tempo, il parametro cui attenersi per decidere sia sull’attribuzione che sulla quantificazione dell’assegno. Infatti, l’assegno di divorzio non ha solamente una natura assistenziale, ma altresì una funzione compensativa-perequativa, che trova il proprio fondamento costituzionale nei principi di solidarietà, di uguaglianza e di pari dignità dei coniugi, principi sui quali si fonda il vincolo matrimoniale.  Pertanto, esso si sostanzia in un contributo economico tale da consentire al coniuge economicamente più debole un reddito tale da valorizzare il ruolo assunto nella realizzazione della vita familiare ed il contributo apportato alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale dell’ex coniuge, tenendo conto in particolare delle aspettative professionali sacrificate, della durata del matrimonio e dell’età del richiedente.
Le SS. UU. hanno quindi stabilito che per l’accertamento del diritto all’assegno divorzile e per la relativa quantificazione, il Giudice debba compiere i seguenti passaggi: in primo luogo, accertare se esiste uno squilibrio economico rilevante tra le posizioni reddituali dei coniugi; secondariamente, verificare se tale squilibrio sia causalmente riconducibile alle scelte di conduzione della vita familiare adottate e condivise dai coniugi in costanza di matrimonio, con l’eventuale sacrificio delle aspettative professionali e reddituali di uno di essi in funzione dell’assunzione di un ruolo trainante endofamiliare; in terzo luogo, compiere un giudizio prognostico per  accertare se tale divario reddituale possa essere autonomamente superato dal coniuge richiedente l’assegno, mediante il recupero o il consolidamento della propria attività professionale, a seguito dello scioglimento dell’unione coniugale.  
Richiamati questi principi giuridici, la Suprema Corte, con l’ordinanza n. 651/2019, ha ribadito un importante principio di diritto, già affermato da diversi precedenti (cfr. Cass. Civ. n. 9719/2010, 13954/2018), secondo il quale

“la determinazione del quantum dell’assegno di mantenimento deve operare sul reddito netto del coniuge obbligato al versamento, poiché la famiglia, in costanza di matrimonio, fa affidamento su di esso”.

Inoltre, la Corte chiarisce espressamente che, in conformità con il principio generale dell’onere della prova (art. 2697 c.c.),

incombe sulla parte che richiede l’assegno l’onere di provare il proprio diritto, (mentre grava su entrambe le parti l’onere di produrre le rispettive dichiarazioni dei redditi, nonché la documentazione inerente il patrimonio personale e quello comune, ai sensi dell’art. 5 comma 9 L. 898/1970).

Alla luce delle suddette motivazioni, la Corte ha ritenuto fondati tutti e tre i motivi di impugnazione proposti da Tizio e ne ha accolto il ricorso, cassando la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’appello territorialmente competente.

 

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