Il suicidio assistito

I fatti sono abbastanza noti. DJ Fabo, a seguito di un grave incidente stradale risalente al 2014, era rimasto tetraplegico, affetto da cecità bilaterale corticale permanente, non autonomo né nella respirazione (necessitava dell’ausilio saltuario di un respiratore), né nell’alimentazione (veniva nutrito in via intraparietale), né nell’evacuazione. Era percorso da ricorrenti spasmi e contrazioni, produttivi di acute sofferenze, che non potevano essere completamente lenite farmacologicamente, se non mediante sedazione profonda; manteneva intatte però le facoltà intellettive.

All’esito di lunghi e ripetuti ricoveri ospedalieri e di vari tentativi di riabilitazione e di cura (compreso un trapianto di cellule staminali), la sua condizione era risultata irreversibile. A circa due anni di distanza dall’incidente, DJ Fabo aveva maturato la volontà di porre fine alla sua esistenza e l’aveva comunicata ai suoi cari. Madre e fidanzata tentavano di dissuaderlo e lui, per dimostrare la propria irremovibile determinazione, aveva intrapreso uno “sciopero” della fame e della parola, rifiutando per alcuni giorni di essere alimentato e di parlare. Nel maggio 2016, tramite la propria fidanzata, prendeva contatto con organizzazioni svizzere che si occupano dell’assistenza al suicidio: pratica consentita, a certe condizioni, dalla legislazione elvetica.

Nel medesimo periodo, era entrato in contatto con Marco Cappato, che gli aveva prospettato la possibilità di sottoporsi in Italia a sedazione palliativa profonda, con interruzione dei trattamenti di ventilazione e alimentazione artificiale. DJ Fabo rimaneva tuttavia fermo nel proposito di recarsi in Svizzera. Inviata alla clinica svizzera la documentazione attestante le proprie condizioni di salute e la piena capacità di intendere e di volere, DJ Fabo aveva ottenuto il “benestare” della struttura al suicidio assistito, con fissazione della data.

Nei mesi successivi aveva costantemente ribadito la propria scelta, comunicandola agli amici e poi pubblicamente (tramite un filmato e un appello al Presidente della Repubblica) e affermando «di viverla come “una liberazione”». Il 25 febbraio 2017 veniva accompagnato da Marco Cappato in Svizzera, a bordo di un’autovettura appositamente predisposta, e seguito dalla madre e dalla fidanzata.

In Svizzera, il personale della struttura prescelta aveva nuovamente verificato le sue condizioni di salute, il suo consenso e la sua capacità di assumere in via autonoma il farmaco che gli avrebbe procurato la morte. I familiari rimastigli vicini gli avevano rappresentato che avrebbe potuto desistere dal proposito di togliersi alla vita, nel qual caso sarebbe stato da loro riportato in Italia.

Il suicidio è avvenuto due giorni dopo (il 27 febbraio 2017), DJ Fabo azionando con la bocca uno stantuffo ha iniettato nelle sue vene il farmaco letale. Di ritorno dal viaggio, Marco Cappato si è autodenunciato ai carabinieri. La Corte di Assise di Milano, nell’ambito del dibattimento penale a carico di Marco Cappato, ha adottato l’ordinanza già citata di rimessione della questione costituzionale dell’art. 580 c. p. che punisce l’aiuto e l’istigazione al suicidio.

La Consulta alla fine dello scorso anno ha adottato un provvedimento intermedio (ordinanza n. 207/2018) precisando alcuni assunti fondamentali in tema di aiuto al suicidio.

Il punto principale della riflessione della Corte è che il nostro ordinamento non punisce il suicidio, neppure quando sarebbe materialmente possibile (ossia nel caso di tentato suicidio).

Punisce tuttavia (art. 580 c.p.) severamente (con la reclusione da 5 a 12 anni) chi concorre nel suicidio altrui, tanto nella forma del concorso morale (determinando o rafforzando in altri il proposito suicida), quanto nella forma del concorso materiale (agevolandone «in qualsiasi modo» l’esecuzione); e sempre che il suicidio abbia luogo o che dal tentato suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima alla persona.

La ratio è la necessità di proteggere la persona da se stessa o meglio dalle decisioni che può prendere a suo danno: non ritenendo di sanzionare direttamente l’interessato, l’ordinamento crea attorno a lui una sorta di “cintura protettiva”, inibendo ai terzi di cooperare in qualsiasi modo con il suo intento suicidario.

Per la Corte, questo assetto di per sé non contrasta con il dettato costituzionale. L’incriminazione dell’istigazione e dell’aiuto al suicidio – rinvenibile anche in altri ordinamenti contemporanei – è infatti funzionale alla tutela del diritto alla vita, soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili, che l’ordinamento penale intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio.

Assolve quindi allo scopo di tutelare le persone che attraversano difficoltà e sofferenze, tentando di scongiurare il pericolo che chi decide di porre in atto il gesto estremo e irreversibile del suicidio subisca interferenze di qualsiasi genere.

È per questo che, anche se l’ordinamento non sanziona chi abbia tentato di porre fine alla propria vita, non è incoerente la scelta normativa di punire chi cooperi materialmente alla dissoluzione della vita altrui, aiutando il suicida nell’attuazione del suo proposito. Condotta che – diversamente dalla prima – fuoriesce dalla sfera personale di chi la compie, innescando una relatio ad alteros di fronte alla quale viene in rilievo, nella sua pienezza, l’esigenza di rispetto del bene della vita.

Il divieto di aiuto ed istigazione conserva quindi una sua propria ragion d’essere anche e soprattutto nei confronti delle persone malate, depresse, psicologicamente fragili, o anziane e in solitudine, che potrebbero essere facilmente indotte a congedarsi prematuramente dalla vita se l’ordinamento consentisse a chiunque di cooperare anche soltanto all’esecuzione di una loro scelta suicida, magari per ragioni di personale tornaconto.

Giusto quindi vietare condotte che spianino la strada a scelte suicide, non potendosi accogliere una concezione astratta dell’autonomia individuale che ignori le condizioni concrete di disagio o di abbandono nelle quali, spesso, simili decisioni vengono concepite.

Per la Corte è la Carta costituzionale che chiede alla Repubblica di porre in essere politiche pubbliche volte a sostenere chi versa in situazioni di fragilità, rimovendo, in tal modo, gli ostacoli che impediscano il pieno sviluppo della persona umana (art. 3, secondo comma, Cost.).

Tuttavia, pur con tali premesse, risulta necessario considerare specificamente situazioni come quella di DJ Fabo, situazioni inimmaginabili all’epoca in cui la norma incriminatrice (art. 580 c.p.) venne introdotta, e che conseguono agli sviluppi della scienza medica e della tecnologia, spesso capaci di “strappare” alla morte pazienti in condizioni estremamente compromesse, ma non di restituire loro una sufficienza di funzioni vitali.

Di qui la particolare considerazione della Corte alle situazioni in cui “il soggetto agevolato” si identifica in una persona: (a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli.

In questi casi per il malato l’assistenza di terzi nel porre fine alla sua vita può presentarsi come l’unica via d’uscita per sottrarsi, nel rispetto del proprio concetto di dignità personale, a un mantenimento in vita artificiale non più voluto e che egli ha il diritto di rifiutare in base all’art. 32, secondo comma, Cost.

La l. n. 219/2019 riconosce, infatti, ad ogni persona «capace di agire» il diritto di rifiutare o interrompere qualsiasi trattamento sanitario (comprese idratazione e nutrizione artificiale), anche se necessario alla propria sopravvivenza, (art. 1, comma 5).

Il malato può quindi decidere di “lasciarsi morire” con effetti vincolanti nei confronti dei terzi, chiedendo di interrompere i trattamenti di sostegno vitale in atto e di essere contestualmente sottoposto a sedazione profonda continua.  

L’esercizio di questo diritto avviene nel contesto della «relazione di cura e di fiducia» (alleanza terapeutica) tra paziente e medico, che la legge mira a promuovere e valorizzare; relazione «che si basa sul consenso informato nel quale si incontrano l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico», e che coinvolge, «se il paziente lo desidera, anche i suoi familiari o la parte dell’unione civile o il convivente ovvero una persona di fiducia del paziente medesimo» (art. 1, comma 2).

Se il paziente manifesta l’intento di rifiutare o interrompere trattamenti necessari alla propria sopravvivenza, il medico deve prospettargli le conseguenze della sua decisione e le possibili alternative, e promuovere «ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica».

Il paziente può modificare in qualsiasi momento la propria decisione (art. 1, comma 5).

In ogni caso, il medico «è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo», rimanendo, «in conseguenza di ciò, […] esente da responsabilità civile o penale» (art. 1, comma 6).

La l. n. 219/2017 prevede che la richiesta di sospensione dei trattamenti sanitari possa essere associata alla richiesta di terapie palliative, allo scopo di alleviare le sofferenze del paziente (art. 2, comma 1). La l. n. 38/2010 (Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore) tutela e garantisce infatti l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore, inserendole nell’ambito dei livelli essenziali di assistenza.

Lo stesso art. 2 stabilisce inoltre, al comma 2, che il medico possa, con il consenso del paziente, ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore, per fronteggiare sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari.

Per la Corte questa disposizione non può non riferirsi anche alle sofferenze provocate al paziente dal suo legittimo rifiuto di trattamenti di sostegno vitale, quali la ventilazione, l’idratazione o l’alimentazione artificiali: scelta che innesca un processo di indebolimento delle funzioni organiche il cui esito – non necessariamente rapido – è la morte.

La legislazione oggi vigente non consente, invece, al medico che ne sia richiesto dal paziente che versi in stato di terminalità e sofferenza, di mettergli a disposizione trattamenti diretti a determinarne immediatamente la morte (attraverso la somministrazione di sostanze letali).

In tal modo il paziente si trova a vivere un processo più lento, che potrebbe essere meno corrispondente alla sua visione della dignità nel morire e potrebbe essere anche più carico di sofferenze per lui (in presenza di sintomi refrattari ai trattamenti) e per le persone che gli sono care.

È evidente quindi come sul piano giuridico il suicidio assistito e l’eutanasia si pongano al di fuori del campo di applicazione della l. n. 219/2017, oltrepassando il punto di equilibrio fissato da questa normativa che nella fase terminale consente al paziente di esercitare la propria autodeterminazione mediante il rifiuto dei trattamenti anche di sostegno vitale (o la loro interruzione se già in atto) con conseguente controllo dei sintomi e del dolore, fino alla sedazione palliativa profonda. Ma non oltre.

Sul piano etico e giuridico il rifiuto della cura esprime la volontà del paziente di riappropriarsi di una dimensione naturale del fine vita, senza un intervento esterno medico, se non di accompagnamento nei termini e modi previsti dalla l. n. 38/2010.

La richiesta di suicidio assistito invece indica una diversa volontà: l’intenzione di anticipare il momento della morte rispetto al suo naturale sopraggiungere. Consiste quindi nella richiesta di essere aiutati a porre in essere un gesto che causa direttamente e immediatamente la propria morte.

L’assistenza medica attiene alla necessità della prescrizione dei farmaci ad effetto letale e all’individuazione di modalità di assunzione che consentano il realizzarsi dell’effetto letale senza esporre il paziente a sofferenze evitabili.  

A differenza dell’eutanasia non è il medico che somministra direttamente in vena i farmaci al malato, ma è il malato che vi provvede manu propria.

Questa differenza non è di poco conto, vista la posizione assunta per il momento dalla classe medica che, sia a livello nazionale che internazionale, ha dichiarato una complessiva non disponibilità ad assumere all’interno del ruolo del medico l’obbligo di porre termine anticipatamente alla vita altrui, anche qualora sia prevista la possibilità dell’obiezione di coscienza.

Per la classe medica il problema non è se sia lecito meno che un paziente si procuri la morte o che terzi compiano questo gesto attraverso un atto appositamente deliberato, ma che venga snaturato il loro ruolo sociale e il senso profondo delle professioni di aiuto e di cura della persona. Resistenza che peraltro si riscontra anche tra gli altri operatori sanitari e che è basata su una serie di argomentazioni tratte dall’esperienza della pratica clinica.

Anzitutto, vi è un generale timore che la previsione di un “diritto al suicidio medicalmente assistito” potrebbe offrire vie alternative e molto più economiche rispetto alla prestazione effettiva ed efficace delle cure palliative, che hanno un costo importante per le strutture sanitarie e per la società. Si cita uno studio canadese che avrebbe calcolato l’impatto economico della legalizzazione in Canada del suicidio assistito del paziente morente: le spese sanitarie subirebbero una riduzione potenziale fino a 138 milioni di dollari.

Altra osservazione è l’assenza, se non in casi limite e in percentuale non rilevabile, di effettive richieste suicidarie: il Comitato nazionale di bioetica (organo consultivo della presidenza del Consiglio dei Ministri) nel parere reso il 18 luglio 2019 ha, infatti, osservato che la maggior parte dei pazienti vuol essere accompagnata nel morire senza sofferenza, con una esplicita richiesta di affiancamento mediante erogazione di cure palliative, già previste come detto dalla l. n.38/2010.

Altri dubbi vengono posti, inoltre, in relazione alla possibilità di individuare una volontà vera e stabile del paziente in merito alla richiesta di assistenza al suicidio, trattandosi di persone che versano in situazioni di estrema fragilità e la cui emotività è soggetta a sbalzi e mutamenti anche repentini.

Il pensiero medico sanitario auspica la possibilità per il paziente terminale di avere un accesso facilitato alle cure palliative e alla Dignity Therapy: una psicoterapia personalizzata, elaborata per i pazienti e per le loro famiglie in presenza di malattie ad esito infausto e letale o fortemente limitanti e invalidanti.

Usando il protocollo Dignity Therapy, il professionista può facilitare l’espressione di pensieri, sentimenti e ricordi che vengono inseriti in un documento narrativo che poi il paziente può anche condividere. Questo processo renderebbe effettiva la buona comunicazione tra medico e paziente, ingrediente essenziale per un’assistenza di alta qualità e migliorerebbe l’interazione tra curante e paziente, aiutando la consapevolezza di entrambi e diminuendo i rischi di influenza od interferenza non appropriata sull’autodeterminazione del malato (essendo dimostrato come l’atteggiamento e la comunicazione del professionista sanitario influisca enormemente sulla formazione della volontà del paziente).

Queste procedure avrebbero l’effetto immediato di rendere la dignità un obiettivo consapevole dell’assistenza sanitaria e in particolare nel fine vita.

Sul piano giuridico il confine tra rifiuto alle cure e richiesta di assistenza al suicidio sembra invece più sfumato.

La Corte Costituzionale, nell’ordinanza su richiamata, rileva che in base alla legge n. 219/2017 il valore della vita non esclude l’obbligo di rispettare la decisione del malato di porre fine alla propria esistenza tramite l’interruzione dei trattamenti sanitari, anche quando ciò richieda una condotta attiva da parte di terzi (distacco o spegnimento di un macchinario, accompagnato dalla somministrazione di una sedazione profonda continua e di una terapia del dolore).

Quindi chi è mantenuto in vita da un trattamento di sostegno artificiale è considerato dall’ordinamento giuridico in grado, a certe condizioni, di prendere la decisione di porre termine alla propria esistenza tramite l’interruzione di tale trattamento.

Perché dunque il medesimo soggetto dovrebbe essere ritenuto bisognoso di una “ferrea e indiscriminata protezione contro la propria volontà” quando si discuta della decisione di concludere la propria esistenza con l’aiuto di altri, quale alternativa reputata maggiormente dignitosa alla predetta interruzione?

Questo dubbio giuridico è stato in parte risolto positivamente dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 242/2019: intervento dall’ambito necessariamente limitato, che lascia aperto il dibattito in corso, sia per gli aspetti giuridici non affrontati dalla Consulta sia in relazione alle più ampie riflessioni bioetiche e deontologiche che la problematica pone di per sé stessa.

 

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