Sul tema della prova delle donazioni indirette la Cassazione conferma la distinzione tra negozio simulato e negozio indiretto

Con l’ordinanza n. 19400/2019 del 18 luglio 2019, la Corte di Cassazione, Sez. II Civ., ha affrontato il tema ricorrente nelle cause successorie delle donazioni indirette costituite dal c.d. negotium mixtum cum donatione.

IL CASO. Tizia conveniva in giudizio i fratelli Caio, Sempronio e Mevia, deducendo che si era aperta la successione del padre e che lo stesso aveva venduto ai convenuti alcuni immobili ad un prezzo notevolmente inferiore al loro reale valore di mercato.

Tizia sosteneva quindi la natura di donazioni indirette delle indicate cessioni degli immobili, chiedendo che forse accertato l’obbligo dei fratelli alla collazione nell’ambito del giudizio di divisione contestualmente promosso da Tizia.

I convenuti resistevano alle domande della sorella. Il Tribunale di Venezia rigettava la domanda attorea, affermando che l’attrice non aveva proposto anche la domanda di simulazione delle presunte donazioni poste in essere dal padre, e che comunque era da escludere che fosse stato provato, nella prospettazione del negotium mixtum cum donatione, l’esistenza dell’animus donandi in capo al de cuius.

Tizia proponeva appello avanti la Corte d’Appello di Venezia, che riformava la decisione di primo grado, ritenendo che effettivamente gli immobili di cui ai vari atti indicati nell’atto introduttivo della causa erano stati oggetto di donazioni indirette da parte del de cuius in favore dei convenuti, che pertanto erano tenuti alla collazione.

In particolare, i giudici di secondo grado rilevavano che, alla luce delle perizie svolte nei due gradi di giudizio, era emerso che il valore dei beni era notevolmente superiore a quello riportato negli atti di acquisto. Di talché, stante la clamorosa sproporzione tra i valori, poteva reputarsi dimostrato l’animus donandi in capo al donante, tenuto anche conto dei rapporti di parentela tra le parti e della presenza dei testimoni in alcune delle compravendite impugnate.

La Corte concludeva quindi nel senso che vi erano elementi presuntivi, gravi, precisi e concordanti, che portavano ad affermare la ricorrenza di donazioni indirette.

I convenuti proponevano ricorso in cassazione, lamentando, con il secondo motivo (ex art. 360, comma I°, n. 5, c.p.c.), l’omesso esame di un fatto decisivo del giudizio relativo alla circostanza che l’immobile acquistato dalla convenuta Mevia era stato alienato dal tutore del de cuius con l’autorizzazione del Tribunale e previa effettuazione di una perizia di stima. Secondo la ricorrente, questa circostanza, ove tenuta in conto, avrebbe escluso la ricorrenza della donazione indiretta.

Con il terzo motivo di ricorso veniva invece lamentata (ex art. 360, comma I, n. 3, c.p.c.), la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1414 e segg. c.c., nonché degli artt. 112 e 113 c.p.c. e 2722, 2724, 2725 e 737 c.c..

Assumevano infatti i ricorrenti che la corretta applicazione delle norme in tema di simulazione avrebbe imposto all’attrice di provare la simulazione senza potersi avvalere di presunzioni. Poiché la stessa aveva agito nella qualità di erede del defunto padre, e non aveva formulato domanda di riduzione, la prova della simulazione andava necessariamente fornita con la controdichiarazione.

LA SENTENZA. La Suprema Corte ha disatteso sia il secondo che il terzo motivo di ricorso per le ragioni che seguono.

Sul secondo motivo gli Ermellini hanno escluso che la circostanza per cui la donazione in favore di Mevia era stata posta in essere dal tutore rivestisse carattere di decisività, tale da influire sull’esito della decisione.

La sentenza di secondo grado aveva infatti ritenuto che gli elementi sintomatici, dai quali far discendere l’esistenza dell’animus donandi in capo al de cuius, fossero da rinvenire nell’evidente sproporzione tra il valore dei beni dichiarato  ed il reale valore di mercato degli stessi, nonché nello stretto rapporto di parentela tra le parti, che induceva a ritenere che la sproporzione fosse voluta e finalizzata a consentire l’arricchimento degli acquirenti per la parte di valore non corrispondente al prezzo versato.

E tale elemento di sproporzione era stato riscontrato all’esito delle consulenze esperite anche nel caso della vendita posta in essere dal tutore.

Quanto alla censura per cui l’atto sarebbe stato posto in essere dal tutore, ferma restando la regola dell’art. 774 c.c. secondo cui il soggetto che non ha la capacità di disporre dei propri beni non può donare, la Suprema Corte ha evidenziato che l’art. 777 c.c. regolamenta l’ipotesi in cui le donazioni siano compiute dai rappresentanti degli incapaci.

Il primo comma della citata norma prevede espressamente che il tutore non può fare donazioni. E tale espressione per parte della dottrina va limitata solo alle donazioni formali.

Il secondo comma dell’art. 777 c.c. consente il compimento di liberalità in occasioni di nozze a favore dei discendenti dell’interdetto e dell’inabilitato.

La seconda parte della norma risulta confermare l’astratta possibilità che anche le donazioni indirette possano essere poste in essere da parte del rappresentante di persone incapaci.

Prosegue però la Suprema Corte osservando che, ove si dovesse ritenere (alla luce dell’opinione della dottrina prevalente) che il divieto di cui al primo comma dell’art. 777 c.c. vada esteso anche alle donazioni indirette, non muterebbe la conclusione cui pervenire. Infatti, una volta ribadita la verifica in fatto degli elementi idonei a connotare l’esistenza di una donazione indiretta e più precisamente di un negotium mixtum cum donatione, l’effetto della declaratoria di nullità di tale negozio sarebbe comunque quello di riportare il bene donato tra quelli caduti in successione con effetti del tutto analoghi, dal punto di vista economico, a quelli derivanti dalla collazione.

Sul terzo motivo di ricorso, pure rigettato, gli Ermellini hanno richiamato la giurisprudenza della Corte secondo cui

nel negotium mixtum cum donatione, che deve rivestire la forma non della donazione, ma dello schema negoziale effettivamente adottato dalle parti, la causa del contratto è onerosa, ma il fine del negozio è quello di raggiungere in via indiretta, attraverso la voluta sproporzione delle prestazioni corrispettive, una finalità diversa ed ulteriore rispetto a quella di scambio, consistente nell’arricchimento,

per mero spirito di liberalità, del contraente che riceve la prestazione di maggior valore.

Nel caso di specie, tale negozio indiretto si era realizzato con la vendita di beni ad un prezzo inferiore a quello effettivo.

Tale tipo di negozio si distingue dal negozio simulato, nel quale il contratto apparente non corrisponde alla reale volontà delle parti, le quali, sotto forma di un contratto oneroso, intendono invece stipulare un contratto gratuito.

L’effetto è che la dichiarazione concernente il prezzo non corrisponde alla realtà.

La Corte Suprema ha quindi concluso che, in ragione della differente prospettazione della vicenda negoziale nei due tipi di negozi, vale la regola secondo cui,

poiché nel caso l’attribuzione gratuita era stata attuata quale effetto indiretto con un negozio oneroso che corrispondeva alla reale intenzione delle parti, non si dovevano applicare i limiti della prova testimoniale in materia di contratti e simulazione, che valgono invece solo per il negozio tipico utilizzato allo scopo

(conformi: Cass. n. 4015/2004, n. 502/2003).

 

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