Protezione internazionale e umanitaria: i trattamenti inumani e degradanti dei privati e ruolo “attivo” del giudice del merito

Con l’ordinanza n. 1343/2020 in tema di protezione internazionale o umanitaria, la Corte di Cassazione ha avuto l’occasione di precisare che sono trattamenti inumani o degradanti (legittimanti la protezione sussidiaria) non solo quelli posti in essere da autorità pubbliche, ma anche quelli attuati da privati (legittimati da prassi socio-culturali/ religiose e tollerati dalle autorità tradizionali locali), quali gli atti di vendetta privata, minacciata o posta in essere dai membri di una famiglia, per la relazione di un famigliare con una persona di rango sociale “inferiore”, da cui deriverebbe una lesione dell’onore del gruppo sociale di appartenenza.

Con la stessa decisione la Corte si è anche soffermata sul ruolo attivo che nella fase di istruzione probatoria spetta all’autorità amministrativa o al giudice avanti al quale vengono impugnate le decisioni di diniego delle competenti commissioni territoriali.

Il caso giunto all’attenzione della Suprema Corte è quello di M.A.: un cittadino Pakistano che nel suo paese di origine ha avuto una relazione sentimentale con una ragazza di un ceto più elevato. La relazione, in seguito al rifiuto al matrimonio opposto dai familiari di lei, è proseguita clandestinamente. La donna, però, dopo aver subito pressioni dalla sua famiglia affinché sposasse un uomo a loro gradito, è morta (suicida o uccisa dai suoi stessi familiari: dalla ricostruzione dei fatti la circostanza non è chiara). Per i familiari della ragazza, comunque, il responsabile del decesso sarebbe stato M.A., che avrebbe, quindi, commesso un delitto di onore per il quale avevano già ottenuto dall’autorità tradizionale locale l’autorizzazione a procedere con la vendetta nei suoi confronti. Vendetta che, infatti, era già stata più volte preannunciata dal fratello della ragazza deceduta ai genitori del ricorrente.

M.A. ha, quindi, lasciato il Pakistan ed è giunto in Italia, dove ha chiesto il riconoscimento della protezione internazionale o umanitaria che, però, la commissione territoriale di Bologna ha negato. Il provvedimento di diniego è stato confermato dal Tribunale di Bologna e dalla Corte d’appello. I giudici di merito hanno ritenuto la narrazione offerta da M.A. generica, poco credibile e caratterizzata da plurime incongruenze. La Corte distrettuale ha, inoltre, assunto officiosamente delle informazioni sul fenomeno delle uccisioni per motivi di onore in Pakistan, che avrebbero escluso l’attualità del pericolo per l’incolumità di M.A., qualora fosse rientrato nel paese di origine.

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza in commento, ha invece accolto il ricorso per vizio di motivazione apparente della sentenza della Corte d’Appello, priva di argomentazione sui motivi di impugnazione relativi a circostanze dallo stesso giudice ritenute decisive.

Si trattava, in particolare, delle circostanze relative alla credibilità soggettiva del richiedente e all’attendibilità del ricorso. La Suprema Corte evidenzia come non sia stata messa in discussione né l’esistenza di una relazione sentimentale ostacolata per motivi di censo e proseguita clandestinamente, né la morte della ragazza, né l’accusa a M.A. di esserne la causa con conseguente diritto della famiglia della donna a vendicarsi sulla sua persona.

Per contro, la Corte ritiene che le circostanze delle quali il giudice di merito ha dubitato (conoscenza dei due giovani e natura della relazione) o sulle quali c’erano delle contraddizioni (causa della morte della ragazza e il successo o il mancato successo delle pressioni esercitate dalla sua famiglia affinché sposasse un altro uomo) non dovevano ritenersi decisive. Tali circostanze, peraltro, erano state oggetto di chiarimenti in sede di gravame e, se necessario, avrebbero potuto essere ulteriormente approfondite convocando il richiedente (che, comunque, aveva già compiuto un ragionevole sforzo per offrire un supporto probatorio alla gravità della situazione) per ascoltarlo con l’interrogatorio libero.

Per la Cassazione, inoltre, il giudice di secondo grado non si è uniformato al principio di diritto vigente in materia di protezione internazionale e umanitaria, per il quale “la valutazione di credibilità delle dichiarazione del richiedente non è affidata alla mera opinione del giudice, ma è il risultato di una procedimentalizzazione legale della decisione…”.

E precisa che, quando si ritiene sussistente l’accadimento, il giudice non deve basarsi sulla mancanza di riscontri oggettivi, né dare rilievo a mere discordanze o contraddizioni su aspetti secondari o isolati. Deve, invece, “svolgere un ruolo attivo nell’istruzione della domanda, disancorandosi dal principio del dispositivo proprio del giudizio civile ordinario, mediante l’esercizio di poteri-doveri d’indagine officiosi e l’acquisizione di informazioni aggiornate sul paese di origine del richiedente, al fine di accertarne la situazione reale”, tenendo conto anche “della situazione individuale e delle circostanze personali del richiedente” con riguardo pure alla sua condizione sociale e all’età.

Nondimeno, va tenuto conto del disposto dell’art. 3, comma 5 del D. Lgs. n. 251 del 2007, in forza del quale, se alcuni elementi o aspetti nelle dichiarazioni del richiedente non sono suffragati da prove, vanno, comunque, considerati veritieri se l’autorità competente a decidere ritiene che: “a) il richiedente ha compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda; b) tutti gli elementi pertinenti in suo possesso sono stati prodotti ed è stata fornita un’idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi; c) le dichiarazioni del richiedente sono ritenute coerenti e plausibili e non sono in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso, di cui si dispone; d) il richiedente ha presentato la domanda di protezione internazionale il prima possibile, a meno che egli non dimostri di aver avuto un giustificato motivo per ritardarla; e) dai riscontri effettuati il richiedente è, in generale, attendibile.”

Nel caso in esame, quindi, i giudici di merito avevano l’obbligo di “pronunciarsi in maniera specifica e critica” in ordine alla rilevanza del fenomeno dei delitti di onore in Pakistan. Tanto più perché dalle fonti raccolte officiosamente risultava che in numerosi casi (almeno il 30%) anche gli uomini rischiano di esserne vittime, riuscendo a sottrarsi alla minaccia solo abbandonando il luogo di origine, offrendo somme di denaro o consegnando alla famiglia (che si ritiene) offesa una donna da sposare appartenente al proprio nucleo familiare.

La Corte sottolinea che “si tratta con evidenza di pratiche lesive dei più elementari diritti umani e che, nella specie non sono ricollegabili …. a un comportamento lesivo della dignità della donna ma al contrario a una prevaricazione di censo in danno del diritto a formare liberamente la propria famiglia”.

Ciò consente il riconoscimento della misura della protezione sussidiaria, “atteso che il danno grave alla persona … può essere determinato dalla sottoposizione a trattamenti inumani e degradanti anche da soggetti non statuali”, quali sono, appunto, quelli di vendetta e ritorsione di cui è stato destinatario il ricorrente.
 

Allegati

Ok
Questo website usa solamente cookies tecnici per il suo funzionamento. Maggiori dettagli