Il riconoscimento della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio travolge l'assegno di mantenimento attribuito al coniuge dalla sentenza di separazione passata in giudicato

di Umberto Roma, Avvocato del Foro di Treviso, Associato di diritto privato nell'Università di Padova

 

Con l’ordinanza n. 11553 dell’11 maggio 2018, la prima sezione civile della Cassazione ha deciso che la delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario, intervenuta successivamente al passaggio in giudicato della sentenza di separazione, travolge le statuizioni economiche relative al rapporto tra i coniugi in essa previste: "il diritto all’assegno di mantenimento, attribuito dal giudicato di separazione, trova infatti il suo fondamento nella permanenza del vincolo coniugale e nel dovere di assistenza materiale tra coniugi, e, pertanto, venuto meno il vincolo matrimoniale, non possono sopravvivere le statuizioni accessorie dal quale esse dipendono".
Per quanto consta, è la prima volta che la Cassazione affronta questa fattispecie, rinvenendosi, piuttosto, numerose decisioni relative agli effetti della delibazione della sentenza ecclesiastica in pendenza del giudizio di separazione. 

L’ordinanza, che si segnala per chiarezza ed efficacia argomentativa, analizza e confronta con quella in esame la diversa fattispecie della sopravvenienza della pronuncia di delibazione al passaggio in giudicato della sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio attributiva dell’assegno divorzile, illustrando compiutamente le ragioni dell’opposta conseguenza, da tempo affermata in giurisprudenza, consistente nella permanenza di tale statuizione economica.

Con pregevole sintesi, viene sinteticamente illustrato pure l’orientamento giurisprudenziale relativo alle diverse ipotesi delle conseguenze del riconoscimento della sentenza ecclesiastica intervenuto durante la pendenza del giudizio di separazione dei coniugi e di quello di divorzio.

 

1. La vicenda processuale

Con ricorso ex art. 710 c.p.c., il marito chiedeva al Tribunale la revoca dell’obbligo di corrispondere alla moglie l’assegno di mantenimento mensile posto a proprio carico dalla sentenza di separazione, adducendo che, successivamente al passaggio in giudicato di tale sentenza, era stata riconosciuta nell’ordinamento italiano la decisione ecclesiastica di nullità del matrimonio. Accolto il ricorso dal Tribunale, su reclamo della moglie, la Corte d’Appello riformava la decisione del giudice di prime cure, respingendo la domanda del marito. A fondamento della propria statuizione il giudice di appello invocava l’avviso di legittimità - formulato, in realtà, per l’assegno divorzile da Cass. n. 4202/2001 - secondo cui il rapporto tra la pronuncia di delibazione e l’anteriore giudicato di divorzio è contrassegnato dall’intangibilità di quest’ultimo relativamente al capo di sentenza attributivo dell’assegno; in altri termini, il sopravvenire della dichiarazione di nullità del matrimonio non può determinare il venir meno del diritto alla percezione dell’assegno di divorzio, ove attribuito con sentenza ormai passata in cosa giudicata.

Il marito ricorreva per cassazione, lamentando violazione e falsa applicazione degli artt. 708 e 710 c.p.c., in relazione all’art. 2909 c.c. e art. 324 c.p.c. Osservava come la Corte d’Appello avesse deciso la questione del giudicato relativo alle statuizioni economiche avvalendosi (erroneamente) di un principio di diritto formulato “in un giudizio avente ad oggetto la cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario, e non una sua fase transitoria o interlocutoria, quale è quella della separazione”. In sostanza, il nodo centrale della critica mossa dal ricorrente si sostanziava nell’avere il giudice di appello fatto applicazione della regola espressa da Cass. n. 4202/2001 con riguardo al giudizio ed all’assegno divorzile alla diversa fattispecie del giudizio di separazione ed al relativo assegno di mantenimento.

La Cassazione, dopo aver esaminato la diversità sostanziale tra separazione e divorzio e tra il fondamento dell’assegno di mantenimento e quello dell’assegno divorzile, cassa il decreto impugnato, giustamente osservando che, “una volta dichiarata l’invalidità originaria del vincolo matrimoniale, vengono meno il presupposto per il riconoscimento di quell’assegno [di separazione] e le statuizioni accessorie ad esso connesse e da esso inevitabilmente dipendenti”.

 

2.  Il principio dell’intangibilità del giudicato sull’assegno di divorzio e la sua inapplicabilità all’assegno di separazione.

L’ordinanza annotata individua – assai opportunamente – la questione da risolvere nella sorte da attribuire alle statuizioni economiche e patrimoniali contenute nella pronuncia di separazione divenuta cosa giudicata, ed in particolare all’assegno di mantenimento riconosciuto ad uno dei coniugi, qualora sopraggiunga il provvedimento di delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità. Va stabilito – precisa la Corte – “se l’obbligo di corresponsione permanga, oppure venga meno in virtù dell’efficacia retroattiva della dichiarazione di invalidità originaria del matrimonio”.

Prima di affrontare e risolvere la questione, la prima sezione traccia nitidamente il sistema, definito in giurisprudenza, degli effetti della pronuncia di delibazione sui giudizi di separazione e di divorzio, ordinandoli nella seguente tripartizione della quale rimarca come si tratti di “ipotesi affatto diverse da quella appena descritta”, ciascuna connotata secondo che l’exaequatur sopraggiunga quando: “a) sia ancora pendente il giudizio di separazione personale; b) sia ancora pendente il giudizio di divorzio; c) si sia già formato il giudicato in ordine ad una precedente sentenza di divorzio”.

La regola di diritto che la Cassazione doveva formulare per l’inedita fattispecie in decisione era destinata a completare il sistema dei rapporti tra delibazione, separazione e divorzio con due esiti possibili: confermare la struttura tripartita, ove la Cassazione avesse deciso, conformemente alla Corte d’Appello, che il principio dettato per la sopravvenienza della delibazione al passaggio in giudicato della sentenza attributiva di assegno divorzile dovesse trovare applicazione pure per l’assegno di mantenimento riconosciuto con il giudicato di separazione oppure optare per una struttura quadripartita, regolando, cioè, con un propria e distinta regula iuris quest’ultima ipotesi.

La Corte di legittimità opta – a ragione – per questa seconda tesi, sviluppando un’argomentazione che, muovendo dalla (immediata ed elementare) distinzione tra separazione e divorzio in ordine ai rispettivi effetti sul matrimonio, s’incentra sulla “sostanziale diversità” tra l’assegno divorzile e quello di separazione, “sia perché fondati su presupposti del tutto distinti, sia in quanto disciplinati in maniera autonoma ed in termini niente affatto coincidenti”.

Il Giudice di appello ha utilizzato, nel decreto impugnato, i principi elaborati dalla giurisprudenza circa gli effetti della sopravvenuta delibazione sul giudicato divorzile attributivo dell’assegno. Ma, secondo la Cassazione, “tale affermazione non merita condivisione”, stante la radicale diversità tra divorzio e separazione.

 

3. L’evoluzione giurisprudenziale sul rapporto tra delibazione e giudicato di divorzio

La decisione ripercorre sinteticamente l’evoluzione dei rapporti tra delibazione e giudicato di divorzio che, come è noto, ha subito una profondo mutamento, assestandosi nei primi anni 2000, sull’orientamento oggi definitivamente consolidato secondo cui, pur essendo ammissibile la dichiarazione di efficacia nello Stato della pronuncia ecclesiastica di nullità matrimoniale malgrado il previo passaggio in giudicato della sentenza divorzile, il capo attributivo dell’assegno post coniugale non è suscettibile di essere caducato.

Occorre accennare alle tappe di quell’evoluzione, anche per mettere in luce come l’opera della giurisprudenza si sia ispirata alla finalità di precludere – nell’inerzia del legislatore biasimata dalla giurisprudenza costituzionale, di legittimità, di merio e dalla dottrina – gli effetti penalizzanti per il coniuge economicamente più debole e destinatario dell’assegno divorzile suscettibili di prodursi con la delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità pronunciata all’esito di un processo canonico introdotto sovente con finalità strumentali da parte del coniuge più abbiente e, non di rado, a distanza di molti anni dalla celebrazione delle nozze. E ciò, con il ben noto effetto, di travolgere l’attribuito assegno di divorzio

Secondo l’avviso tradizionale, infatti, l’esistenza di un giudicato di divorzio non precludeva il riconoscimento nell’ordinamento statale della sentenza ecclesiastica di nullità, la quale era idonea a travolgere il provvedimento di cessazione degli effetti civili del matrimonio con tutte le relative pronunce, comprese quelle di natura economica.

In sostanza, si escludeva il contrasto di giudicati, per il rilievo che, mentre la domanda di nullità del matrimonio concordatario, oltre che tendere nel suo petitum ad una pronuncia meramente dichiarativa con effetto ex tunc, fonda la sua causa petendi sul titolo genetico del vincolo matrimoniale, e sui fatti che ne costituiscono l’invalidità, per converso la domanda di divorzio ha natura indubbiamente costitutiva, e fonda la sua causa petendi su requisiti diversi, ovvero sui fatti previsti tassativamente dalla l. n. 898/1970 che, sopraggiungendo nel corso del rapporto sono suscettibili di determinare la cessazione degli effetti civili del vincolo matrimoniale con effetti ex nunc (Cass., n. 3638/1977).

Sebbene valga il principio per cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile, in realtà, davanti al giudice del divorzio, in difetto di specifica eccezione sul punto, non si ha statuizione circa la validità del matrimonio, con la conseguenza che la sentenza divorzile non spiega efficacia di giudicato sulla validità del vincolo, limitandosi ad incidere sugli effetti civili del matrimonio, senza toccare tutto ciò che, logicamente e cronologicamente si pone a monte della trascrizione (Cass., sez. un., n. 3257/1975, ed ancora Cass. n. 12144/1993, citata dall’ordinanza annotata).

Con la sentenza di Cass. n. 4202/2001 (preceduta, sebbene non esattamente in termini, da Cass. n. 3345/1997), si è avuta la svolta – tuttora ribadita – secondo cui, ferma la diversità di petitum e causa petendi fra giudizio (domanda) di divorzio e giudizio (domanda) di nullità e dunque ribadito che il giudicato divorzile non preclude la delibazione, tuttavia, relativamente ai capi del provvedimento di divorzio contenenti statuizioni di natura economica, deve applicarsi “la regola generale secondo la quale, una volta accertata in un giudizio fra le parti la spettanza di un determinato diritto, con sentenza passata in giudicato, tale spettanza non può essere rimessa in discussione - al di fuori degli eccezionali e tassativi casi di revocazione previsti dall'art. 395 c.p.c., non dedotti nella specie - fra le stesse parti, in altro processo, in forza degli effetti sostanziali del giudicato stabiliti dall'art. 2909 del codice civile” (così Cass. n. 4202/2001).

In conclusione, una volta accertata nel giudizio con il quale sia stata chiesta la cessazione degli effetti civili di un matrimonio concordatario la spettanza a una parte di un assegno di divorzio, ove su tale statuizione si sia formato il giudicato ai sensi dell'art. 324 c.p.c., questo resta intangibile, in forza dell'art. 2909 c.c.

Lo stessa decisione affronta anche la possibile obiezione secondo cui le sentenze di divorzio, quanto ai provvedimenti economici, vengono emanate rebus sic stantibus ai sensi dell’art. 9 della l. n. 898/1970, che ne prevede la modificabilità in presenza di mutamenti delle condizioni originarie. Ma, osserva la Corte, i “giustificati motivi” che, secondo quell’articolo, consentono la revisione vanno intesi “come circostanze che abbiano alterato l'assetto economico fra le parti, o di relazione con i figli, e non come circostanze che sarebbero state impeditive della emanazione della sentenza di divorzio e dell'attribuzione dell'assegno, le quali non sono idonee ad incidere sul giudicato se non nei limiti in cui sono utilizzabili attraverso il rimedio della revocazione”.

Questa ricostruzione costituisce ormai ius receptum: Cass. nn. 21331/2013, 12989/2012, 3186/2008, 4795/2005.

 

4. La diversità del fondamento dell’assegno di mantenimento e dell’assegno divorzile

L’ordinanza annotata, come si è detto, risolve la questione degli effetti della delibazione della nullità ecclesiastica sull’assegno di mantenimento disposto dalla sentenza di separazione passata in giudicato, escludendo che a tale fattispecie possa applicarsi la descritta regola sull’intangibilità, quanto all’assegno, del giudicato divorzile. La ragione fondamentale risiede nella costatazione che, diversamente dal divorzio, la “separazione personale dei coniugi, invero, non elide, anzi presuppone la permanenza del vincolo coniugale” e con esso quel dovere di assistenza materiale ex art. 143 c.c. che, durante la separazione (vale a dire sino al passaggio in giudicato della sentenza di divorzio o alla declaratoria di nullità civile del matrimonio o al riconoscimento di quella ecclesiastica nell’ordinamento civile), si converte, ricorrendo i presupposti dell’art. 156 c.c., nell’assegno di mantenimento.

In altri termini, il rapporto coniugale non viene meno, determinandosi soltanto una sospensione dei doveri di natura personale (…); al contrario, gli aspetti di natura patrimoniale permangono, sebbene assumendo forme confacenti alla nuova situazione”, l’assegno di mantenimento, appunto, come da ultimo ribadito da Cass. n. 12196/2017.

Esattamente, dunque, si precisa: “(…) il dovere di assistenza materiale, nel quale si attualizza l’assegno di mantenimento, conserva la sua efficacia e la sua pienezza in quanto costituisce uno dei cardini fondamentali del matrimonio e non presenta alcun aspetto di incompatibilità con la situazione, in ipotesi anche solo temporanea, di separazione”.

Diverso, ben diverso è l’effetto del divorzio sul matrimonio: in conseguenza della cessazione degli effetti civili del matrimonio (come dello scioglimento del matrimonio civile), “il rapporto matrimoniale si scioglie definitivamente sia sul piano dello status personale dei coniugi, sia dei loro rapporto economico patrimoniali (art. 191 c.c., comma 1) e, in particolare, del reciproco dovere di assistenza morale e materiale (art. 143 c.c., comma 2) (…). Perfezionatasi tale fattispecie estintiva del rapporto matrimoniale, il diritto all’assegno di divorzio (…) è condizionato al previo riconoscimento di esso in base all’accertamento giudiziale della mancanza di ‘mezzi adeguati’ dell’ex coniuge richiedente l’assegno, o comunque dell’impossibilità dello stesso di ‘procurarseli per ragioni oggettive’”. 

Va incidentalmente notato come l’ordinanza in commento palesemente risenta – per ragioni cronologiche, essendo stata decisa il 13 aprile 2018 – delle argomentazioni di Cass. n. 11504/2017, quanto all’ancoraggio costituzionale dell’assegno divorzile, che viene individuato nel principio di “solidarietà economica (art. 2 in relazione all’art. 23 Cost.), il cui adempimento è richiesto agli ex coniugi, quali ‘persone singole’”; è noto che il fondamento costituzionale dell’assegno divorzile è stato successivamente corretto e riportato al disposto degli artt. 2, 3, e 29 Cost. da Cass., sez. un., 18287 dell’11 luglio 2018.

Ma ciò non incide affatto sulla ricostruzione del rapporto tra delibazione ed assegno di divorzio, in quanto ciò che rileva – marcando il differente presupposto tra assegno divorzile ed assegno di mantenimento – è che il primo non trova fondamento nel dovere di assistenza materiale, ma nell’art. 5 della l. n. 898/1970, che lo riconosce “alla ‘persona’ dell’ex coniuge che sia stato ritenuto, tramite accertamento giudiziale, sprovvisto dei ‘mezzi adeguati’ o effettivamente impossibilitato a ‘procurarseli’, così scattando quella solidarietà post coniugale di cui si è detto”.

In sostanza, pare di poter dire che l’assegno divorzile trova fondamento non già, come quello di mantenimento, nel (persistente) matrimonio, ma nella solidarietà post coniugale alle condizioni direttamente previste dall’art. 5 della l. n. 898/1970, relativamente ad un matrimonio che è definitivamente estinto.

Ed, infatti, la decisione in commento rimarca, con efficace nitore, che mentre l’assegno di mantenimento trova “fondamento proprio nella permanenza del vincolo coniugale”, quello di divorzio rinviene la sua “essenziale giustificazione in quel dovere di ‘solidarietà economica’ il cui adempimento non postula quale necessario ed attuale suo presupposto, lo status di coniuge, ma è richiesto ad entrambi gli ex coniugi (…), a tutela della persona economicamente più debole

Fissate tali premesse, la Cassazione rammenta come il vincolo matrimoniale e lo stato di separati vengano meno sia con il passaggio in giudicato della sentenza di divorzio sia allorquando sia resa efficace nello Stato italiano, attraverso il procedimento di delibazione, la sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario.

Si comprende, dunque, la ragione dell’ammissibilità della caducazione dell’assegno di mantenimento, sia pure fondato sul giudicato di separazione, ove sopraggiunga la delibazione della pronuncia ecclesiastica di nullità dotata della sua forza retroattiva.

Se il presupposto dell’assegno di mantenimento è il dovere di assistenza materiale che persiste – e “nel quale si attualizza l’assegno di mantenimento”, – con il matrimonio durante la separazione personale, è evidente che, “a fronte del travolgimento del presupposto (permanenza del vincolo coniugale) dell’assegno di mantenimento” conseguente alla delibazione, “non possono resistere le statuizioni economiche, relative al rapporto tra i coniugi, contenute nella sentenza di loro separazione, benché divenuta cosa giudicata”.

L’esclusione di ogni violazione del principio dell’intangibilità del giudicato è affermata, in questo caso, dalla Cassazione con il rilievo secondo cui sarebbe “irragionevole (…) che possano sopravvivere pronunce accessorie [quella relativa al mantenimento per il coniuge] al venir meno della pronuncia principale [quella sulla separazione] dalla quale queste dipendono”.

La Cassazione rinviene – sia pure (troppo) sinteticamente – conferma della bontà della conclusione nel rilievo secondo cui anche la sentenza di nullità del matrimonio pronunciata secondo la disciplina civilistica non darebbe luogo “a statuizioni corrispondenti a quelle previste in sede di separazione personale”, poiché in tale ipotesi il legislatore ha previsto che la disciplina dei rapporti economici trova “la sua sede adeguata nel c.d. matrimonio putativo”, vale a dire nell’artt. 129 c.c., che prevede la corresponsione di un assegno di mantenimento per un periodo non superiore a tre anni.

E’ noto che questa stessa disciplina è quella applicabile a seguito del riconoscimento nell’ordinamento dello Stato della pronuncia ecclesiastica, come dispongono l’art. 18 della l. 27 maggio 1929, n. 847, e l’art. 8, comma 2°, dell’Accordo, con protocollo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modificazioni al Concordato lateranense, ratificato e reso esecutivo dalla l. 25 marzo 1985, n. 121.

A ragione, dunque, la Cassazione conclude che il fatto della sopravvenienza della delibazione non deve essere indagato nei termini di giustificato motivo per la modifica del provvedimento attributivo dell’assegno di mantenimento attribuito con la sentenza di separazione, quanto come fatto di per sé idoneo ad elidere, peraltro retroattivamente (ma col temperamento del sistema del matrimonio putativo), “il presupposto [cioè la permanenza del vincolo matrimoniale e dunque del dovere di assistenza materiale] per il riconoscimento di quell’assegno e le statuizioni accessorie ad esso connesse e da esso inevitabilmente dipendenti”.

 

5. Gli effetti della delibazione sui provvedimenti pronunciati nel giudizio di separazione riguardo alla prole

La decisione merita adesione ed è coerente con l’orientamento giurisprudenziale (richiamato tanto dal ricorrente quanto dall’ordinanza annotata) secondo cui il giudizio di separazione e quello di nullità hanno differenti petitum e causa petendi e le relative sentenze sono produttive di effetti diversi, onde il giudicato di separazione non preclude la delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità (Cass. nn. 3378/2012, 3339/2003).
Allo stesso modo e per le medesime ragioni, la preventiva pendenza del giudizio di separazione non impedisce il riconoscimento della sentenza ecclesiastica di nullità ed, anzi, quest’ultimo, comporta la pronuncia di cessazione della materia del contendere nel processo di separazione, sia con riguardo alla domanda di separazione che a quelle per l’addebito e l’assegno di mantenimento (Cass. nn. 30496/2017, 17094/2013).

Articolata è, piuttosto, la soluzione relativa agli effetti della delibazione nel giudizio pendente quanto alle statuizioni accessorie alla pronuncia sullo status.

Se, con riguardo all’assegno per il coniuge, si ricava dalla giurisprudenza che non vi è luogo a disporre l’assegno di mantenimento, dovendosì fare applicazione della disciplina degli effetti patrimoniali del c.d. matrimonio putativo, e se, con riguardo alla domanda di addebito, si ritiene che pur relativamente ad essa debba pronunciarsi la cessazione della materia del contendere (Cass. n. 862/1981; Trib. Campobasso 25 settembre 2014), diversa è la conclusione cui si perviene per le attribuzioni patrimoniali pattiziamente convenute e già realizzate.

Si è, così, deciso che la sopravvenuta dichiarazione di nullità del matrimonio non estingue l'obbligazione assunta da un coniuge di trasferire all'altro la proprietà di un bene immobile a scopo di mantenimento, o di alimenti, per il periodo di separazione antecedente alla dichiarazione di nullità del vincolo; né tale dichiarazione costituisce evento risolutivo di un trasferimento già operato od evento ostativo all'adempimento dell'obbligazione da parte del debitore ove sia stato incensurabilmente accertato dal giudice del merito che l'attribuzione patrimoniale non sia stata implicitamente subordinata (principio della presupposizione) alla persistente validità del matrimonio, ma alla esistenza di oneri economici nascenti dal vincolo nuziale, alla cui regolamentazione le parti intesero provvedere (Cass. n. 3940/1984); il principio è coerente con il temperamento della retroattività degli effetti della sentenza di nullità che caratterizza l’istituto del c.d. matrimonio putativo.

Ben diversa è la portata degli effetti della delibazione sui provvedimenti ex art. 708 c.p.c. relativi alla prole. Riguardo ai figli, infatti, l’art. 129 c.c. dispone l’applicazione dell’art. 155 c.c., che, a sua volta, fa rinvio alle disposizioni contenute nel capo II del titolo IX del medesimo libri I del c.c.

E’ pacifico l’orientamento secondo cui la sopravvenienza della delibazione nel giudizio di separazione pendente non priva il giudice adito del potere-dovere di adottare disposizioni in tema di affidamento, mantenimento ed educazione della prole, a norma dell'art. 155 c. c., richiamato dall'art. 129, 2° comma, c. c., e, quindi, anche a vagliare il comportamento dei coniugi, al fine di emettere detti provvedimenti in corrispondenza dell'interesse morale e materiale dei figli (Cass. n. 649/1989, 5887/1983).

I provvedimenti già emessi ex art. 708 c.p.c. relativamente all’affidamento ed al mantenimento conservano efficacia (Cass. nn. 15558/2011, 15165/2004).

Con riguardo all’assegnazione della casa familiare, proprio in quanto l’art. 129 c.c. fa rinvio all’art. 155 c.c., si è ritenuto legittimo il provvedimento col quale è stata assegnata la casa familiare al genitore affidatario dei figli a prescindere dalla circostanza che proprietario risultasse il non affidatario (Cass. n. 13428/2002).

 

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