La lenta emersione del consenso informato nelle decisioni giurisdizionali

Il “consenso informato” (art. 1 l. n. 219/17) è la consapevole adesione del paziente al trattamento proposto dal sanitario, nel rispetto dell’intangibilità della sua sfera corporea e del suo diritto inviolabile alla salute.
La sua pratica realizzazione necessita dell’imprescindibile “alleanza terapeutica” tra medico e paziente, che viene anch’essa definita dalla legge come “tempo di cura”, di comunicazione nuova e persuasione, finalizzata a promuovere la consapevolezza del malato e la sua piena partecipazione al processo terapeutico.
La giurisprudenza nazionale, anticipando molti dei principi giuridici oggi esplicitati nell’art. 1, affermava da tempo, che il consenso libero ed informato ai trattamenti medici ”[...] è di norma, legittimazione e fondamento del trattamento sanitario”, oltre che “[...] forma di rispetto per la libertà dell’individuo e mezzo per il perseguimento dei suoi migliori interessi”, da ciò “[...] la facoltà del paziente non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale” (Cass. civ. n. 21748/2007; Cass. civ. n. 10414/2016; Cass. civ. n. 7516/2018).
Nel quadro internazionale i primi approcci al consenso informato sono rinvenibili nel c.d. “informed consent” della giurisprudenza statunitense.
Fra i casi disputati nelle Corti Nord Americane (che hanno segnato la nascita del consenso fino a farlo diventare “informato”), risale addirittura al 1914 il caso Schloendorff vs. Society of New York Hospital la cui decisione affermò che “ogni essere umano adulto e capace ha diritto di determinare cosa debba essere fatto col suo corpo ed  un chirurgo che effettua un intervento, senza il consenso del suo paziente, commette un’aggressione per la quale egli è perseguibile per danni”.
Nel caso Cooper (1971) la Corte evidenziò “[...] che il principale obiettivo del consenso informato è quello di portare a conoscenza del paziente tutti gli aspetti concreti della terapia, in base ai quali egli possa poi scegliere consapevolmente cosa fare/non fare”.
Negli anni sessanta anche la nostra Cassazione Civile in una pronuncia aveva affermato che “.. Fuori dei casi di intervento necessario ed urgente, il medico nell’esercizio della professione non può, senza valido consenso del paziente, sottoporre costui ad alcun trattamento medico-chirurgico suscettibile di porre in grave pericolo di vita o l’incolumità fisica …” (Cass. civ. sez. III, 25.07.1967, n. 1945).
Ma la giurisprudenza italiana ha accolto e applicato questo principio solo in epoca successiva, stante anche la persistenza di una concezione paternalistica della scienza medica, per la quale solo il medico, unico conoscitore delle regole del corpo umano e della medicina, era in grado di stabilire i mezzi e di decidere lo scopo della sua prestazione, senza necessità di “alleanza” col paziente.
Nell’ultimo trentennio, anche sotto l'influenza del quadro normativo internazionale, si è registrato un mutamento di tendenza in ambito nazionale, con un incremento qualitativo e quantitativo del contenzioso giudiziario penale e civile per “omissione del consenso informato”.
Storico il caso deciso dalla Corte di Assise di Firenze il 18 ottobre 1990 che ha visto la condanna, confermata anche in appello, di un chirurgo fiorentino per omicidio preterintenzionale, per avere sottoposto ad intervento chirurgico demolitivo (resezione addomino-perineale) non concordato, né consentito, ed in completa assenza di necessità ed urgenza terapeutica, un'anziana paziente.
Nella sentenza di primo grado si legge: “[...] senza minimamente curarsi dei limiti del consenso ricevuto, senza che si fosse verificata emergenza, senza che la situazione clinica della paziente lo rendesse necessario, il chirurgo non solo non decise di sospendere l’intervento, ma, all’opposto, senza esitazione alcuna, praticò alla paziente un intervento che non solo ella non aveva consentito, ma che era chiaramente contro la volontà di lei”.
Nello stesso anno il Legislatore si è occupato, sebbene in modo settoriale, del consenso informato in ambito sanitario con la l. n. 107/1990 (in materia di attività trasfusionali) per richiederne la forma scritta.
Anche la l. n. 40/2004 (in tema di procreazione medicalmente assistita) ha dedicato al consenso informato (art. 6) una specifica disposizione: “il medico informa in maniera dettagliata […] sui problemi bioetici e sui possibili effetti collaterali sanitari e psicologici conseguenti all'applicazione delle tecniche stesse, sulle probabilità di successo e sui rischi delle stesse derivanti, nonché delle possibili conseguenze giuridiche per la donna, per l'uomo e per il nascituro. Le informazioni […]devono essere fornite per ciascuna delle tecniche applicate e in modo tale da garantire il formarsi di una volontà consapevole e consapevolmente espressa.[…] La volontà di entrambi i soggetti di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita è espressa per iscritto congiuntamente al medico responsabile della struttura”.
Nel frattempo, in assenza di una disciplina positiva, la Corte Cost., con la sentenza n. 438/2008 confermava l’operatività generale del principio nel nostro ordinamento giuridico, “[...] il medico è in possesso di tutti quegli strumenti e conoscenze tecniche e scientifiche che devono consentire a chi si sottopone alle cure o ad interventi chirurgici di esercitare il proprio fondamentale diritto di autodeterminazione, aderendo al trattamento sanitario proposto, con la consapevolezza di quali possano essere i rischi correlati al rilascio di quel consenso”.
Negli anni successivi si è andata approfondendo la riflessione giurisprudenziale, affermandosi che “[...] Il diritto al consenso informato, in quanto diritto irretrattabile della persona va comunque e sempre rispettato dal sanitario, a meno che non ricorrano casi di urgenza, rinvenuti, a seguito di un intervento concordato e programmato e per il quale sia stato richiesto e sia stato ottenuto il consenso, che pongano in gravissimo pericolo la vita della persona” (Cass. civ. n. 16543/2011).
In particolare la somministrazione al paziente di una adeguata informazione e l’acquisizione di un suo valido consenso sono stati configurati come l’oggetto di una specifica prestazione del medico che “[...]ha l’obbligo di fornire tutte le informazioni possibili al paziente in ordine alle cure mediche o all’intervento chirurgico da effettuare, tanto è vero che sottopone al paziente, perché lo sottoscriva un modulo non generico, dal quale sia possibile desumere con certezza l’ottenimento in modo esaustivo da parte del paziente di dette informazioni illustrando rischi/vantaggi dell’intervento” (Cass. civ n.18334/2013) “[...] dettagliato al fine di garantire lo scrupoloso rispetto del diritto di autodeterminazione del paziente” , chiarendo con estrema lungimiranza che tale obbligo “[...] non si estende ai soli rischi imprevedibili, ma al di là di tale limite, il professionista sanitario ha l’obbligo di fornire al paziente, in modo dettagliato, tutte le informazioni scientificamente possibili sull’intervento chirurgico che intende eseguire” (Cass. civ. n. 2847/2010).
Nello stesso senso la nota sentenza n. 3058/17 del Consiglio di Stato pronunciatasi sulla responsabilità risarcitoria della Regione Lombardia per danni nei confronti del padre (e tutore) della figlia Eluana Englaro, in tema di autodeterminazione terapeutica: il consenso informato non è solo “[…] legittimazione del trattamento sanitario: il consenso libero rappresenta una forma di rispetto della libertà dell'individuo e un mezzo di perseguimento per i suoi migliori interessi  […] ma […] esprime una scelta di valore nel concepire il rapporto tra medico e paziente nel senso che detto rapporto appare prima fondato sui diritti del paziente e sulla sua libertà di autodeterminazione terapeutica che sui doveri del medico [...]  proclama l'inviolabilità della libertà personale nella quale è postulata la sfera di esplicazione della persona di disporre del proprio corpo e dell'art. 32 che tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo”.
Anche la recente sentenza n. 14158/17 è occasione per la Cassazione di riaffermare l’operatività del diritto all'autodeterminazione di una persona che aveva espresso per iscritto la volontà di non essere sottoposto a trasfusioni, motivata col suo credo religioso.
Infine degna di nota una recentissima decisione (Cass. civ. n. 6688/2018) che riassume in modo chiaro l’attuale approdo normativo e giurisprudenziale “In realtà, l'obbligo di una informazione del paziente da parte del medico che sia effettuata in modo completo e con modalità congrue caratterizza la professione sanitaria, più che logicamente, dato che il medico ha come oggetto della sua attività un corpo altrui.
La giurisprudenza di questa Suprema Corte ha sviluppato il concetto della necessaria informazione non solo riguardo alla decisione di sottomettersi ai trattamenti proposti dal medico - il cosiddetto e ben noto "consenso informato" - ma altresì laddove la conoscenza concerne risultati diagnostici così da costituire il presupposto dell'esercizio del diritto di autodeterminazione in ordine a scelte successive della persona-paziente (sotto quest'ultimo profilo cfr. tra gli arresti più recenti Cass. sez. 3, 28 febbraio 2017 n. 5004 e Cass. sez. 3, 27 novembre 2015 n. 24220). L'inadempimento dell'obbligo informativo può quindi ledere il diritto all'integrità psicofisica (cfr. p. es . Cass. sez. 3, 13 febbraio 2015 n. 2854) ma può parimenti ledere il diritto all'autodeterminazione. Autodeterminazione che, oramai, struttura precipuamente il rapporto tra paziente e medico, e che deve essere tutelata in modo effettivo e concreto, mediante informazioni trasmesse con modalità adeguate alle caratteristiche della persona che le riceve
”.
La l. n. 219/17 ha definito questo lunga riflessione giurisprudenziale con una disciplina espressa e compiuta, dopo anni di vuoto normativo, regolando in modo sufficientemente organico la tutela del diritto all’autodeterminazione terapeutica sancito dalla Costituzione.

    

 

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