L’art. 3 della legge 219/2017: il rifiuto alle cure dell’incapace

Il testo della decisione assunta dal G.T. di Roma appare in sé parco di informazioni in merito alla situazione di fatto.

Dalle dichiarazioni rese dagli avvocati che hanno assistito l’amministratore di sostegno si apprende che la beneficiaria era una donna di 60 anni, da due anni in stato vegetativo irreversibile.

All’amministratore di sostegno, compagno di vita, era già stata attribuita la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario ai sensi dell’art. 3 quarto comma della legge n. 2019/2017.

L’ADS si era rivolto al giudice per essere autorizzato a rifiutare le cure e i sostegni vitali, in modo che la morte della beneficiaria potesse sopraggiungere come evento naturale, e con l’accompagnamento garantito dall’applicazione delle cure palliative di cui alla l. n. 38/2019, compresa la sedazione profonda.

In assenza di D.A.T. (disposizioni anticipate di trattamento) e quindi di un documento scritto ascrivibile all’interessata contenente indicazioni per regolare le situazioni di fine vita, l’ADS riferisce nel ricorso che la compagna aveva manifestato ad amici e familiari (la mamma, la figlia, le sorelle, il fratello, l’ex marito) e a lui stesso la volontà di non essere tenuta in vita artificialmente. Ricostruita la volontà dell’interessata e indicate le persone da assumere come persone informate sui fatti, l’ADS chiedeva di essere autorizzato ad esprimere il dissenso alle cure per conto della beneficiaria.

Il giudice dichiarava invece il non luogo a procedere, ritenendo che l’ADS, già rappresentante esclusivo in materia sanitaria, potesse esprimere autonomamente il rifiuto o la revoca alle cure, in assenza del contrasto con i medici curanti di cui al quinto comma dell’art. 3.

Secondo la norma, infatti, se i curanti ritengono necessaria e appropriata la cura, l’ADS deve ricorrere al G.T. per poter essere autorizzato al rifiuto.

La valorizzazione da parte del G.T. dell’assenza di contrasto con i curanti, lascia presumere che i medici avessero ritenuto di non indicare come clinicamente appropriato proseguire l’erogazione delle cure/sostegni vitali o comunque non l’avessero ritenuta utile per sproporzione tra eventuale ricaduta positiva attesa e potenziali ricadute negative sulla paziente.

L’assenza di contrasto, in altre parole, sembra essere stata valorizzata dal G.T. come indice che la prosecuzione delle terapie potesse configurare eccesso terapeutico, vietato dall’art. 2 della legge in commento.

A questo punto il G.T. si sofferma solo sulla corretta formazione della determinazione terapeutica:
se non vi è contrasto tra medico e ADS (e quindi se il medico non afferma l’appropriatezza e necessità della cura);
se l’ADS ha già la rappresentanza esclusiva in campo sanitario;
e se l’ADS ha già accertato la volontà della persona rappresentata, anche in via presuntiva (alla luce delle dichiarazioni rese in passato dall’amministrata anche alla presenza dello stesso amministratore),
l’ADS è abilitato a rifiutare le cure senza che il giudice debba assumere alcuna determinazione autorizzatoria.

In altre parole, nelle condizioni su esposte, per il giudice romano la ricostruzione storica della volontà della beneficiaria è compito dell’ADS che, espletato questo dovere, può esprimere il dissenso (revoca/rifiuto) alle cure senza ulteriore passaggio giurisdizionale.

Tale affermazione ha suscitato alcune perplessità in relazione al recente intervento della Corte Costituzionale (sentenza n. 144/2019) sollecitato dall’ordinanza di rimessione del G.T. di Pavia del 24.03.2018, che aveva sollevato dubbi sulla costituzionalità proprio dell’art. 3, commi 4 e 5 l. n. 219/2017.

Il giudice remittente aveva basato i suoi dubbi di costituzionalità sull’assunto che la norma in commento consentisse all’amministratore di sostegno, cui (in assenza delle DAT) fosse stata affidata la rappresentanza esclusiva del beneficiario in ambito sanitario, di poter rifiutare sempre e comunque i trattamenti sanitari necessari alla sopravvivenza dell’assistito, senza bisogno di un’autorizzazione di quest’ultimo per manifestare al medico il rifiuto delle cure.

La Corte, dopo una analitica ricostruzione dell’istituto dell’ADS, ha concluso che, contrariamente alle convinzioni del GT di Pavia, l’art. 3 comma 5 non attribuisce ex lege a ogni amministratore di sostegno che abbia la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario anche il potere di esprimere o no il consenso informato ai trattamenti sanitari di sostegno vitale.

La norma in commento si limita invero a disciplinare il caso in cui l’ADS abbia già ricevuto anche tale potere, e spetta al Giudice Tutelare attribuirglielo o in occasione della nomina – laddove in concreto già ne ricorra l’esigenza, perché le condizioni di salute del beneficiario sono tali da rendere necessaria una decisione sul prestare o meno il consenso a trattamenti sanitari di sostegno vitale – o successivamente, allorché il decorso della patologia del beneficiario specificamente lo richieda.

Rientra quindi comunque nel compito istituzionale del G.T. la verifica non solo del corretto espletarsi del processo decisionale sul piano formale, ma anche la definizione dei confini delle valutazioni dell’ADS nell’esercizio della rappresentanza esclusiva in campo sanitario, che devono rispettare l’interesse del beneficiario, inteso sia come best interest sia come valorizzazione dell’insieme dei suoi valori e convincimenti, qualora ricostruibili. Valutazioni che sono di fatto e strettamente inerenti il caso concreto.

Il G.T. del Tribunale di Roma sembra ammettere la possibilità del suo intervento giurisdizionale ai sensi dell’art. 3 comma 5 l. n. 219/2017 solo sul presupposto del conflitto con i medici, e quindi di una loro indicazione sulla necessità ed appropriatezza clinica delle cure proposte.

E in ciò è aderente al ragionamento della Corte.

Tuttavia, a monte, l’ambito del potere di consenso o rifiuto nell’esercizio della rappresentanza esclusiva in campo sanitario, deve aver già trovato adeguata ponderazione in sede giudiziaria al momento dell’attribuzione del potere stesso o successivamente (art. 407 c.c.), sulla base delle nome codicistiche che regolano l’istituto di protezione.

Nella logica del sistema, quindi, è il G.T. che, col decreto di nomina dell’ADS, individua l’oggetto dell’incarico e gli atti che l’amministratore ha il potere di compiere in nome e per conto del beneficiario.

Spetta sempre al giudice individuare e circoscrivere i poteri dell’amministratore, anche in ambito sanitario, apprestando misure che garantiscano la migliore tutela della salute del beneficiario, tenendone pur sempre in conto la volontà, come espressamente prevede l’art. 3, comma 4, della l. n. 219/2017.

Il rapporto tra ADS e medico, di cui si occupa l’art. 3 comma 5, si pone quindi a valle del provvedimento di nomina dell’ADS, quando il potere di rappresentanza nel rapporto di cura è già stato conferito e disciplinato nel merito dal G.T.

Nel caso in commento tutti i familiari, unitamente all’ex marito e all’attuale compagno, erano concordi sull’interruzione del trattamento.

Concordi anche i medici, che - non sollevando il contrasto - non hanno affermato la sussistenza di una appropriatezza clinica alla prosecuzione del trattamento.

Ma la definizione e i limiti del potere di decisione terapeutica sostitutivo non pare possa ragionevolmente essere rimesso all’ADS.

Resta una competenza del giudice, che può provvedere anche in sede di definizione dei poteri dell’ADS, pronunciandosi esplicitamente anche a questo riguardo.

 

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